Federico II

a cura di GINO BENZONI


Scheda pubblicata in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XLIX, Roma 1997, pp. 771-783. La presente scheda è stata inserita grazie alla autorizzazione rilasciata dall’ISTITUTO DELLA ENCICLOPEDIA ITALIANA fondata da Giovanni Treccani [Prot. 495/04/DE del 19 novembre 2004] che si ringrazia per la disponibilità.


Duca di Mantova e marchese del Monferrato. – A lungo sospirato dai genitori, il marchese di Mantova Francesco e Isabella d’Este, relativamente allietati, nei primi dieci anni di matrimonio dall’antecedente nascita di due femmine, F. nacque a Mantova il 17 maggio 1500.

Felice il padre per la sicurezza dell’erede maschio, donò al vicino santuario della Madonna delle Grazie un’effige d’argento pesante quanto il neonato; colma di gioia la madre e piena di gratitudine per Osanna Andreasi, sua guida spirituale, alle cui preghiere si convinse di dovere un figlio maschio. Per lei F. sarà il figlio prediletto, di gran lunga preferito rispetto agli altri due figli, Ercole il futuro cardinale e Ferrante il futuro uomo d’armi. “Anima mia” lo chiamerà trepida di tenerezza.
Ciò non toglie che F. fosse ben presto utilizzato nell’avventuroso destreggiarsi della politica paterna. Infatti, nel giugno del 1502, fu fidanzato alla coetanea Luisa figlia di Cesare Borgia e di Carlotta d’Albret. Così, dietro suggerimento d’Ercole I d’Este fiducioso di comporre in tal modo i contrasti tra i due, il Borgia e il padre di F., cui, invece, Luigi XII, pel quale militava, sconsigliava l’apparentamento.
Premessa alle ventilate nozze il simoniaco pasticcio per cui i Gonzaga dichiaravano di ricevere 25.000scudi di dote, da restituire se dette nozze non si fossero verificate, mentre, contestualmente, Alessandro VI s’impegnava a concedere la porpora a Sigismondo, zio paterno di F., per la somma, appunto, di 25.000scudi garantitigli per tramite bancario. Ma la morte del papa, il 18ag. 1503, fece saltare l’accordo e Sigismondo diverrà, per altre vie, il 29 novembre, cardinale sotto Giulio II. Quanto al padre di F., mentre la sua vita privata si complicava colla relazione con la cognata Lucrezia Borgia (moglie d’Alfonso d’Este, fratello di sua moglie Isabella), la sua posizione politica si rafforzava per l’azione svolta a suo favore a Roma dalla sorella Isabella, duchessa d’Urbino. Era, comunque, alla moglie Isabella d’Este – regista d’intrighi e, insieme, avveduta sbrogliatrice delle più arruffate matasse avente sempre in mente e gli interessi mantovani e quelli estensi – che Francesco Gonzaga dovette la salvezza dalle sue successive peripezie. E fu in questa intricatissima situazione che F. fu oggetto di contrattazione e compensazione.

Caduto il padre in mano veneziana l’8 ag. 1509, la madre fece cavalcare F. per Mantova ad attestare al popolo plaudente la tenuta del Marchesato. E se Isabella rifiutò – non senza sdegno del marito che inveì contro “quella puttana di mia mojer” – di cederlo in ostaggio a Venezia, s’acconciò a darlo in pegno a Giulio II sicché fungesse da deposito vivente a garanzia della Serenissima per la liberazione di Francesco. E ciò non senza apprensione ché correvano sul papa (il quale era tutt’altro che ben disposto verso Isabella: “quella ribalda putana”, quella “puttana della marchesana”, soleva definirla) brutte voci: e Girolamo Cassola sentì persino dire che Giulio II “volea” presso di sé F. “perché lo aiutasse a dire lo officio di sodomia in lecto”.

Fatto sta che, liberato, il 14 luglio 1510, Francesco incontrò – prima di proseguire per Mantova dove rientrò il 27 – a Bologna F. destinato al papa e quivi ritratto decenne per la madre da Francesco Francia. Raggiunta Roma nell’agosto, il fanciullo venne splendidamente alloggiato negli stessi appartamenti papali.

Lussuosamente trattato, attirò, con la sua aggraziata avvenenza, con la sua precoce disinvoltura d’eloquio e d’intendimento (e ciò perché la madre l’aveva sin da piccolo fatto istruire, sicché il suo caso diventò esemplare dell’opportunità d’educare il bambino in tenera età; ed F. se ne ricorderà affidando il primogenito Francesco appena treenne a Benedetto Lampridio; donde, nel 1539, da parte di Bartolomeo Ricci, nel suo candidarsi a pedagogo d’Alfonso d’Este, il futuro duca di Ferrara, la citazione appunto di questo caso come prova che un bimbo di cinque anni quale Alfonso era maturo per l’apprendimento anche del latino), la simpatia dei cardinali che fecero a gara nel vezzeggiarlo. Istruito dal precettore Francesco Virgilio e da Fabio Calvi, effigiato da Raff nella Scuola d’Atene, F., come precocemente seppe di greco e matematica, così fu precocemente avviato alle astuzie e alle trame della politica. Nelle loro lettere i genitori lo trattavano come un adulto. E la lettera del 6 febbr. 1513 d’Amico Maria della Torre a lui indirizzata – laddove si dilunga sul grottesco gareggiare del duca Massimiliano Sforza, del viceré di Napoli Raimondo Cardona e del vescovo di Gurk card. Matteo Lang perché Eleonora Brognina (una delle disponibili damigelle, non a caso definite “ministre di Venere”, della madre che di loro si serviva per le sue calcolate tessiture, e in effetti la Brognina, di tutte la più seducente, era in grado di far dimenticare sia al viceré che al cardinale gli interessi del papa) dia loro un “baso” – sembra quasi insegnargli come, per vincere, occorra contare sulle umane debolezze. Sin troppo presto svezzato l’incantevole bambino del dipinto del Francia; è a questo che si fa annunciare, nel giugno del 1512, allo zio materno Alfonso d’Este che il papa non è più adirato con lui; è a questo che la Brognina, la più vivace e appetita tra le damigelle materne, scrive lettere civettuole e maliziose. Già un po’ cinico e disincantato il fanciullo dalla testa ricciuta affrescato da Raffaello là dove, nella Scuola d’Atene, c’è, appoggiato ad una colonna, un giovane intento a leggere. E gia, in compenso, propenso alle cose belle, già in grado di apprezzarle, già smanioso di possederle: non per niente pretese che l’orafo Caradosso riproducesse per lui il Laocoonte di recente scoperto.

Morto, nella notte tra il 20 e il 21 febbr. 1513 Giulio II, con gran sollievo d’Isabella, F., a ciò autorizzato da una licenza del Collegio cardinalizio, poté, il 3 marzo, partire da Roma: il 13 era ad Urbino, il 17 a Mirandola ed il 18 di nuovo a Mantova.

Qui non è che vigesse l’armonia familiare. C’era contrasto – difficile appurare sino a che punto reale e sino a che punto simulato ad arte – tra le ambizioni a vasto raggio d’Isabella, che s’intrometteva anche nelle faccende ferraresi e che si preoccupava del nipote Massimiliano Sforza, ed il marito, il quale, se disapprovava le sue puntate a Milano e a Genova, non s’opponeva, invece, al fastoso soggiorno romano della moglie tra l’ottobre del 1514 e il marzo del 1515. Troppo ricattabile, comunque, nella fragilità della sua posizione, il padre di F. perche questi non fosse appetito nuovamente come ostaggio.

Vittorioso a Marignano il 13 settembre 1515 Francesco I, a lui Francesco Gonzaga s’accostò prontamente e – richiestone esplicitamente dal sovrano in aggiunta alla consegna di Asola e Lonato – non esitò ad inviargli, con il dono di quattro splendidi cavalli, F., il quale, partito da Canneto il 19 ottobre, incontrò il 22, a Milano, il re di Francia, cui giunse, nel frattempo, da parte di Leone X un breve di raccomandazione a suo riguardo. Preso in simpatia da Francesco I, F. fu con lui a Bologna, in dicembre quando incontrò il papa e con lui partì, l’8 genn. 1516, da Milano alla volta della Francia, dove fu gratificato con una condotta militare di 600 lance ed una pensione annua di 6.000 franchi.
Pur soggiornandovi in veste d’ostaggio, l’esistenza presso la corte francese fu per F. alquanto piacevole: disponeva di denaro, di trentacinque cavalli, di quaranta persone al proprio servizio. Poteva così condurre una vita dispendiosa e brillante, abbandonandosi ad un intenso succedersi di piaceri e divertimenti: tornei, giostre, amoretti, amorazzi. Col sopraggiungere dell’intesa franco-imperiale, del 3 dicembre, venne meno la ragione per cui F. dovesse esser trattenuto a scanso di voltafaccia paterni. Sicché il padre premette pel suo rilascio “per la consolation di questa patria et nostra”. Ma occorse attendere il 19 marzo 1517 perché l’adolescente comunicasse ai genitori d’aver ottenuto il permesso per la partenza.

Preso congedo dal re e dalla regina, F. si mise, il 23, in viaggio giungendo il 13 aprile a Casale, dove, il 6, erano stati stipulati i capitoli delle nozze, per lui combinate, tramite la negoziazione di Galeotto Del Carretto, dalla madre, con Maria Paleologo, primogenita del marchese di Monferrato Guglielmo IX. Celebrati gli sponsali il 15 e rinviatane la consumazione al compimento dei quindici anni di Maria, che, allora, ne aveva appena otto, F. si mostrò soddisfatto. Aveva, infatti, scriveva alla madre lo stesso giorno, “ritrovato la … consorte bella, acostumata et gratiata et savia che non saperia desiderare melio”. Partì, quindi, alla volta di Mantova e di qui, per una visita d’omaggio, a Venezia, dove si trattenne dal 19 al 28 maggio, ritornando poi – passando per Ferrara – a Mantova. Qui trascorse il tempo addestrandosi nella scherma e nell’equitazione: “sta in continuo exercitio d’arme”, riferiva compiaciuto, il 17 giugno, il padre alla madre. Recatosi in Francia, F. assistette al battesimo del delfino Francesco di Valois e alle nozze di Lorenzo de’ Medici con Maddalena de La Tour d’Auvergne, celebrate ad Amboise il 28 genn. 1518. Insignito, il 28 marzo 1518, dell’Ordine di S. Michele, al ritorno si fermò a Casale, dove il suocero, nell’inarrestato aggravarsi delle sue condizioni di salute, morì il 4 ottobre.

Rientrato a Mantova, qui morì, il 29 marzo del 1519, stremato dalla sifilide, il padre, nel cui testamento F. – suo successore nel Marchesato in virtù della primogenitura – era posto, sino all’ingresso nel ventiduesimo anno, sotto la tutela della madre e dello zio card. Sigismondo. Comunque, il 3 aprile, tutto vestito di velluto bianco, con scarpe bianche, con “giuppone” argenteo, con la collana d’oro dell’Ordine di S. Michele, in una splendida cerimonia, F. già ricevette lo scettro.
Iniziava, per ogni pubblica occasione, il ricorso sistematico alla pompa più stupefacente. E ciò a ragion veduta: così la piccola corte era meno piccola, ché capace di gareggiare in splendore coi grandi sovrani magari superandoli in fastosa inventiva; così, inoltre, man mano s’accentuava la separatezza tra lusso cortigiano e quotidianità dimessa del grosso della popolazione urbana, ecco che il rapporto corte-città si risolveva negli “spettacoli d’allegrezza” colla quale la prima stupiva la seconda e diventava, ai suoi occhi. ammiranda. Nella dimensione sontuosa della festa F. si sentiva a proprio agio e, nel contempo, cresceva di statura. Donde la dispendiosissima enfatizzazione del carnevale del 1520: Ci fu, il 19 febbraio, una grandiosa giostra, cui affluirono, attratti dai ricchi premi, i migliori cavalierid’Italia. Seguì la recita dell’Aulularia e, dopo di questa, un “gran convito” e, infine, un ballo “a son di piffari”; venne rappresentata, il 21, per la prima volta a Mantova, la Calandria diB. Dovizida Bibbiena, a mo’ d’introduzione ad una “lautissima et sumptuosissima cena”, a conclusione della quale iniziò il ballo che durò sino all’alba. Artefice di feste, insieme con la madre, F. a Mantova, quando si recava altrove era, del pari, oggetto di feste. Inaudita la magnificenza con la quale lo si accolse, alla fine di maggio, a Venezia: memorabile, soprattutto, la “mornaria grande” in suo onore, del 29, rappresentante Ercole che libera Proserpina dall’inferno. Ed è sintomatico che, ancora il 13 febbraio, fosse arrivata a Mantova una delegazione della veneziana compagnia degli Immaturi recando in un bacile d’argento la calza ricarnata foderata di “restagno d’oro”, cosi accogliendo F. nel sodalizio specializzato, appunto, nell’allestimento di spettacoli per le feste.
Fu sempre nel 1520 che, dalla relazione – politicamente sconveniente e, come tale, contrastata senza fortuna da Isabella ché F., su questo punto, non cedette – di F. con la coetanea Isabella Boschetti (figlia d’una sorella di Baldassarre Castiglione e di Giacomo Boschetti, uomo di corte e d’armi dei Gonzaga valorosamente battutosi a Fornovo), moglie d’un cortigiano, Francesco Gonzaga conte di Calvisano, nacque Alessandro (sarà stimato uomo d’armi e morrà nel 1580); e, dalla stessa, l’amore per la quale è forse il dato più costante della sua esistenza, F. avrà anche Emilia.
Firmati, l’11 dicembre, i capitoli della condotta in virtù dei quali – includenti, però, la pericolosa clausola (F. era un feudatario imperiale) della disponibilità a combattere anche contro l’imperatore – F. s’impegnava a servire Leone X per tre anni con 300 uomini d’armi e con lo stipendio annuo di 12.000 ducati, il 7 apr. 1521 F. ricevette l’investitura del Marchesato. Quindi, il 10 luglio, venne proclamato in concistoro da Leone X capitano generale della Chiesa e fu, in tale veste, fissato dal pennello di Lorenzo Costa a cavallo attorniato da vari personaggi armati.

Una carica prestigiosa – frutto dell’abilità del plenipotenziario mantovano Baldassarre Castiglione, cui andava il merito d’aver antecedentemente fatto sbollire l’ira pontificia per l’ospitalità mantovana agli spodestati duchi d’Urbino -, anche se imbarazzante, ché scatenò le accuse francesi di rinnovata doppiezza alla madre. Figlio del “vincitor di Fornovo” F., alle cui glorie marziali l’invitò a rifarsi Mario Equicola, il segretario d’Isabella ch’egli gratificherà con la cittadinanza mantovana e col lucroso e comodo ufficio di castellano di Canedole, ebbe modo di stagliarsi a mo’ di bellico campione.
Assunti, il 15 settembre, il bastone del comando e il vessillo della Chiesa, F. assediò Parma, entrò vittorioso a Milano il 21 novembre e da questa si portò a Lodi, muovendo quindi all’assalto di Cremona saldamente presidiata da Francesi e Veneziani. E qui le operazioni ristagnarono, anche perché – morto il 1º dicembre Leone X – la mancata sicurezza della paga smorzò la combattività delle truppe. Insediatosi, il 30, a Pavia – che diventò la base delle sue operazioni – da qui sorvegliava Odet de Foix signore di Lautrec meditante un attacco a Parma.
Nel frattempo Mantova era in festa (e il tripudio contemplava il saccheggio al ghetto a stento represso da Isabella) ché, senza gran fondamento, si diffuse la speranza dell’elevazione al soglio del card. Sigismondo (questi, goffo e affetto da lue, era deriso da Pasquino come il “babbion mantovano”) e della correlata trasmissione della porpora ad Ercole, fratello minore di Federico. Una doccia fredda per le premature esultanze l’elevazione al pontificato dell’austero Adriano VI del 9 genn. 1522.

Continuava, comunque, l’impegno militare di F. che nel marzo era a Milano, a Castel San Giovanni. a Pavia e batteva, il 22, a Bassignano, il contingente capeggiato da Thomas de Lescun, fratello, d’Odet de Foix. Seguì, il 25-26, una scaramuccia presso Gambolò, non lungi da Vigevano; dopo di che, il 29, F. era a Gropello. Rientrò quindi a Pavia, vi adunò rinforzi, vi riparò le fortificazioni respingendo altresì i tentativi offensivi del Lautrec.

Lasciata il 22 aprile Pavia, F. raggiunse – per Piacenza e Parma – Mantova, dove, a riconoscimento della sua encomiabile difesa di Pavia, ottenne, il 22 maggio, l’investitura imperiale delle terre già del suo omonimo Federico Gonzaga di Bozzolo schieratosi coi Francesi e la nomina, da parte di Carlo V, a capitano di 100 lance col soldo di 10.000 franchi annui. Di nuovo, nell’agosto del 1523, capitano generale della Chiesa e, pure, di Firenze, F., al calare delle armi francesi in Italia, si portò, il 15 settembre, a Bozzolo, concentrando quindi tutte le sue truppe a Cremona, avanzando poi sino a Lodi; ma successivamente ripassò, il 22-23, l’Adda e si fermò a Castiglione d’Adda, mentre i Francesi spostavano a Marignano il loro campo donde mossero all’assedio di Cremona, cui però – giungendo tempestivo in soccorso F. – rinunciarono il 7 ottobre. Quindi F. si portò ad Orzinuovi e di qui a Pavia, a fine mese. Donde, anche perché sofferente di ritenzione d’urina connessa con una fastidiosa gonorrea, rientrò a Mantova.

Qui apprese – non senza sua soddisfazione – che era stato eletto, il 19 novembre, successore d’Adriano VI, scomparso il 14 settembre, Clemente VII, il quale lo riconfermò capitano generale della Chiesa. Ma la mancata somministrazione – da Roma e da Firenze – di fondi per le truppe l’indusse a non muoversi da Mantova, adducendo, a giustificare il suo assenteismo, motivi di salute. Ai medici – lo confessò F. stesso al fido Castiglione – esibì “orine” tinte di “sangue”, sicché questi si convinsero che stava proprio male, mentre, sogghignava F., era “sano et gagliardo”. Ciò non toglie che, a forza di cavalcare, non l’affliggesse ritenzione d’urina, per guarire la quale, nell’estate del 1524, si curò con le acque di Caldiero.

Dimentico F., nel frattempo, che Maria Paleologa aveva ben compiuti i quindici anni e, in ogni caso, fiducioso nell’annullamento romano d’un vincolo non più conveniente nella misura in cui risultava errato il calcolo d’una morte precoce del fratello Bonifacio che avrebbe fatta scattare la successione a vantaggio della ragazza, si ventilò – e in tal senso premeva la madre desiderosa di staccare F. dalla Boschetti – l’opportunità di un matrimonio con una figlia del re di Polonia Sigismondo I Jagellone, che venne comunque destinata ad altri. Sfumò così l’allettante vagheggiamento di nozze regali. Motivo di grave imbarazzo, altresì, per F. la costituzione, del 22 maggio 1526, della Lega di Cognac: questa, associando Francia Venezia papa e Francesco Sforza, era dichiaratamente antimperiale. E F., anche se feudatario dell’Impero, s’era, nella clausola segreta a suo tempo sottoscritta, impegnato a combattere, se era il caso, anche contro l’imperatore. Solo che – per fortuna di F. – detta clausola risultò scomparsa.

L’aveva trasmessa a Mantova da tempo – per denaro e a ciò convinto da Baldassarre Castiglione – Pietro Ardinghelli; e, ancora il 7 ag. 1522, Isabella aveva annunciato trionfante a F. che “questa mattina havemo stracciato et abbrusato con nostra mano … tale scritto”. Un grave smacco per la S. Sede questo della distruzione del documento in grado di provare la convenzione segreta. E magra consolazione pel papa punire il tradimento con l’allontanamento del colpevole. Restava il fatto che formalmente non si dava possibilità d’inchiodare F. al rispetto del suo impegno.
Riconfermandolo, ad ogni modo, il 1º settembre, capitano generale della Chiesa, Clemente VII sperava che F., quanto meno, non si volgesse all’Impero. C’era da dubitare, infatti, di lui in un contesto in cui Carlo di Borbone (cugino di F., ché figlio di Chiara Gonzaga sorella di suo padre), con clamoroso voltafaccia, abbandonava le insegne francesi per le imperiali, in cui Alfonso d’Este, zio di F., era schierato contro il papa, in cui lo stesso fratello di F. Ferrante militava per l’Impero. Donde la grottesca situazione di F., di per sé capitano della Chiesa, che si proclamava neutrale e che, di fatto, nel novembre del 1526, facilitò le operazioni di transito delle truppe di Georg von Frundsberg, cui, tramite il suo agente Matteo Cusastro, assicurò un atteggiamento non ostile; e così non solo il suo territorio non diventò teatro di battaglia, ma si guadagnò il favore di Carlo V che, con lettera del 6 apr. 1527, lo ringrazierà esplicitamente di questa sua preziosa collaborazione.
“Valoroso e nelle opere della guerra e nel fortificare e difendere le città valentissimo”, a detta di Giovio, F.; un giudizio insostenibile, se si valuta il suo comportamento nel 1526-27. “Il marchese di Mantova vale poco”, scriveva, infatti, di lui Guicciardini. Certo che, di fronte al suo rintanarsi pavido e, insieme, astuto risaltò, per contrasto, l’eroismo di Giovanni de’ Medici, che, ferito a Governolo il 24 nov. 1526, morì, il 30, a Mantova essendo visitato agonizzante da F. solo dietro le insistenze dell’Aretino, il quale nella “canzone o frottola sul sacco di Roma” a F. dedicata esorterà ad onorare prostrandosi “l’urna” dell’eroe caduto. Se si considera che F. aveva concentrato a Borgonovo tutte le barche disponibili nel Mantovano per agevolare il passaggio dei lanzi e nel contempo – rifiutando l’abbassamento anticipato dei ponti – aveva impedito al Medici d’assalirli alle spalle, è comprensibile apparisse, agli occhi delle truppe di questo, come infame traditore. E, visto che, poi, nella Roma saccheggiata dai lanzi da F. (pure gratificato, il 3 maggio 1527, da Clemente VII colla nomina a cardinale del fratello Ercole) non fermati, la casa della madre si salvò concedendo, altresì, ospitalità profumatamente pagata a quanti in essa vollero riparare, siffatta nomea si complicò: a F. si attribuì una responsabilità, quanto meno indiretta, nel sacco e i Gonzaga vennero accusati d’avere del sacco lucrato. Sino ad un certo punto preoccupato del discredito che lo ricopriva, F. riusci, comunque, a procrastinare sino a metà dicembre del 1527 l’adesione alla Lega, mentre approfittava del rincrudire della peste a Mantova per rimandare la scadenza delle nozze con Maria Paleologa.

Sventato, nel gennaio del 1528, il tentativo d’eliminare la Boschetti, sua influente amante, F. fece ammazzare il marito di questa, principale responsabile della congiura, a Modena dov’era fuggito e fece incarcerare i gentiluomini suoi complici, accusando, nel contempo, di responsabilità in detta congiura la stessa piccola corte casalese. Sicché la madre di Maria e la stessa Maria diventarono colpevoli di tentato veneficio. Un ottimo pretesto per chiedere l’annullamento del matrimonio causa veneni.
Lungi dal rifiutare il proprio avallo, Clemente VII, pressato dal card. Innocenzo Cibo che voleva liberare i due fratelli, compromessi colla congiura, Gerolamo e Giovanni Agnelli, si adattò, scarcerati questi da F., ad accontentare, a sua volta, Federico. Donde, il 22 aprile, il breve concedente facoltà d’annullamento all’arcidiacono della cattedrale mantovana Alessandro Gabbioneta, il quale senza indugio procedette allo scioglimento, a causa, appunto, delle presunte pratiche di avvelenamento. Seguì – e con preoccupazione di rendere un po’ meno indecorosa la motivazione – l’annullamento papale del 6 maggio 1529, ove subentrò, quale motivo, la mancata consumazione.
Reintegrato così nel celibato, si aprì all’ambizione di F. un ventaglio di possibilità matrimoniali che andava dalla sorella del re di Navarra Enrico II d’Albret ad una delle figlie del duca di Baviera Guglielino IV di Wittelsbach, dalla figlia del duca di Cleves a Giulia d’Aragona. Ed era quest’ultima – figlia dell’ultimo re di Napoli Federico e parente dell’imperatore -, anche se brutta, anche se anziana, la candidata più conveniente laddove, con la pace di Cambrai del 7 luglio, la supremazia asburgica sulla penisola non pareva più contestabile e ad essa s’agganciava Federico.
Non per niente, recando con sé il dono di tre magnifici destrieri, F. rese omaggio a Carlo V a Genova, essendo da lui accolto affabilmente, anche perché lo sapeva disponibile alle nozze con Giulia, il 16 agosto. “Basata che gli hebbi la mano – così F. alla madre -… Sua Maestà mi rispose che sempre mi havea amato … et … che la mia venuta gli era gratissima”. Una simpatia attestata dalla nomina, del 21 settembre, di F. a capitano generale dell’esercito cesareo in Itafia, sino ad un certo punto rallegrante, ché F. restò deluso nella sua ulteriore aspettativa vagheggiante la designazione a duca di Milano.

Segno di particolare favore, comunque. per F. il soggiorno mantovano – prolungato dal 24 marzo al 19 apr. 1530 – di Carlo V.

Fastosissimo, il 25 marzo, l’ingresso ufficiale in una Mantova impavesata e scenograficamente valorizzata dal sapiente percorso aperto da un arco trionfale e concluso da un altro arco trionfale allestito da Giulio Romano, dal 1526 “superiore delle fabbriche” e sovrintendente della viabilità cittadina nonché artefice dei “bellissimi apparati” grazie ai quali Mantova godette d’una rinomanza europea. Seguì la stretta conclusiva del concertato matrimonio con Giulia d’Aragona. Questo premeva a Carlo V per collocare una volta per tutte una parente da troppo tempo in attesa di sistemazione ed era visto con favore dalla Boschetti sicura che una sposa poco avvenente non avrebbe catturato certo il cuore di F. e fiduciosa che la prevedibile sterilità delle nozze con una quarantenne aprisse possibilità di successione ad Alessandro, il figlio suo e di Federico. E, in effetti, nei capitoli nuziali sottoscritti il 6 aprile si previde, in mancanza d’erede legittimo, la successione pei figli naturali. E ciò a tutte lettere: “ut in casu quo filios non susciperet ex … Iulia”, F. potesse nominare l’erede a suo piacimento, anche se figlio adulterino “ex quocuinque dainnato et illicito coitu”. Solo che Isabella sarà lesta ad avvisare, tramite il fratello Alfonso, Carlo V, il quale, reso edotto dell’esistenza di Alessandro, l’assicura che non permetterà mai sia favorito.
Sventata su questo punto la manovra della Boschetti, restava la sostanza dell’impegno nuziale di F., premiato per questo, l’8 aprile, con il solenne conferimento, alla presenza della cittadinanza, dinanzi alla cattedrale, del titolo ducale. E, a ribadimento dell’impegno, il 9 aprile si celebrò pure il suo contratto matrimoniale. Non passò però molto tempo perché F. si rivelasse nuovamente inadempiente.
La morte accidentale, del 6 giugno, di Bonifacio del Monferrato, fratello della ripudiata Maria, nell’atto stesso in cui la faceva diventare – data la cagionevole salute dello zio Giangiorgio cui, pel momento, passava la corona marchionale – prossima erede del Marchesato, la rendeva di nuovo sposa appetibile agli occhi di Federico. Ed ecco che un’artefatta manifestazione pubblica vide la popolazione mantovana reclamare a gran voce il rispetto, da parte del duca, dell’impegno a suo tempo con lei contratto. Ed ecco che lo stesso F., ostentando riguardo per tanto manifesta volontà dei sudditi e accampando scrupoli di coscienza in lui attizzati dal confessore rimbrottante l’elusione dell’obbligo contratto nel 1517, fece presente, tramite l’inviato Antonio Bagarotti, a Carlo V – peraltro poco convinto, peraltro contrariatissimo – l’impossibilità politica (di scontentare i sudditi) e morale (non poteva tacitare il suo debito di coscienza) di tener fede alla promessa fatta a Giulia d’Aragona. Quanto a Clemente VII, sconfessando, il 20 settembre, l’annullamento dell’anno prima, si mostrò sin servizievole. Ma Maria, l’interessata, nel frattempo era morta il 15 settembre; al che F., dopo essersi detto immerso “in la maggior agonia et dolore del mondo”, si riprese rapidamente accettando di buon grado la mano di Margherita, sorella della defunta, propostagli dalla madre Anna il 19. Ed il papa s’aggiornò concedendo la dispensa alle nozze con la cognata. Firmati, il 5 ottobre, a Mantova i capitoli nuziali e ratificati questi a Casale, seguì, il 29 marzo 1531, il giudizio favorevole della Sacra Rota. Più arduo persuadere l’adirato Carlo V. Blandito col versamento d’un’ingente somma e man mano convinto dall’abile perorare dell’inviato mantovano conte Nicola Maffei – il quale, tra le varie argomentazioni, insistette su quella che sarebbe stato crudele infliggere a F. l'”eterno suplicio” della convivenza con una donna “di tanta deformità” come Giulia d’Aragona -, l’imperatore, nel luglio, deposto lo sdegno, acconsentì. “Le cose del duca di Mantova – scriveva infatti da Bruxelles a Roma il nunzio pontificio presso l’imperatore Lorenzo Campeggi il 10 del mese – hanno preso bona resolutione”. Carlo V “ha voluto che” F. paghi ogni anno, durante vita, alla signora Iuglia” 3.000 ducati. “Et poi s’è levato la prohibitione alla marchesa di Monferrato di maritare la sua figliola”.

Superati così tutti gli ostacoli, si celebrarono, il 3 ottobre, a Casale le nozze, esaltate da un “epitalamio” di Bernardo Tasso, di F. con Margherita di Monferrato che gli darà cinque figli (oltre che di Francesco, Guglielmo, Ludovico, Federico, il Litta dà notizia d’un altro Federico scomparso in tenera età) e tre figlie (Isabella che sposerà, nel 1554, Ferdinando Francesco d’Avalos, marchese del Vasto e di Pescara; Anna ed Eleonora, entrambe destinate al velo presso le domenicane del mantovano convento di S. Vincenzo). Quindi, il 16 novembre, la coppia fece il suo ingresso a Mantova, alla cui popolazione F. non esitò, di lì a poco, ad imporre un pesante “dono” per questo suo matrimonio.

Anche se Carlo V – ospite per la seconda volta di F. a Mantova dal 7 novembre all’8 dic. 1532 – stabilì, il 31 dicembre, che alla morte dello zio Giangiorgio l’investitura dei Marchesato sarebbe spettata a Margherita, i frutti delle nozze con questa non si rivelarono pacifici. Morto, il 30 apr. 1533, Giangiorgio Paleologo (sposato morente, per procura a Ferrara, il 29 marzo, proprio con quella Giulia d’Aragona colla quale avrebbe dovuto accasarsi F.), Casale, non senza istigazione sabauda, insorse alla notizia dell’arrivo di F., il quale si vide costretto a rinunciare all’ingresso.
Lo stesso Carlo V, a tutta prima, parve non favorire F.: mentre le sue truppe capeggiate da Antonio de Leyva reprimevano la ribellione casalese ed imponevano, il 10 giugno, ai rappresentanti cittadini l’accettazione del dominio di chi avesse avuto l’investitura imperiale, egli non era insensibile ad una rimessa in discussione delle ragioni di Margherita. E premeva su di lui in tal senso soprattutto la cognata Beatrice di Portogallo, la quale, moglie di Carlo II di Savoia, si faceva forte di quanto pattuito, ancora nel 1330, tra Ainione di Savoia e Iolanda Violante figlia di Teodoro I Paleologo. Mentre F. s’affannava a far circolare denaro tra consiglieri e giudici, il caso venne affidato ad una commissione che, dopo aver iniziato a tenere le proprie sedute a Milano nella primavera del 1534, si sciolse alla fine dell’anno; ed occorse attendere il febbraio del 1536 perché la causa ricominciasse ad essere discussa. Un cavilloso protrarsi che, alla lunga, favorì F. e non tanto per ragioni d’ordine giuridico, quanto per valutazioni d’opportunità e per considerazioni in prospettiva. Non conveniva al predominio ispanico un allargamento sabaudo. Utile, invece, che il Marchesato monferrino – appendice staccata del Ducato gonzaghesco – fungesse da corridoio di transito tra il mare e i domini spagnoli in Italia. Donde, da parte di Carlo V – il quale, fra l’altro, aveva nominato, nel 1535, viceré di Sicilia il fratello di F. Ferrante – la sentenza, formulata a Genova il 3 novembre, nella quale riconosceva l’investitura di Margherita. Ne conseguì, per F., essendo estinto il ramo maschile dei Paleologo, il titolo di marchese di Casale. Favorito, dunque, quanto al possessorio, rimaneva fastidiosamente aperta la questione del petitorio, non escludente la revisione giuridica della sentenza e fomite di continue contestazioni ed incentivo a future rovinose guerre.
Reso omaggio a Genova all’imperatore, F., forte della decisione di questo, s’insediò, il 25 novembre, in una Casale desolata dall’atroce saccheggio degli Imperiali successivo alla cacciata dei Francesi, già chiamati dai Bianderate. Un lugubre esordio, pertanto, quello di F., per di più caratterizzato dall’accanita persecuzione dei fautori della Francia. Intatto, pel momento, l’ordinamento cittadino, ma la sua autonomia era già insidiata da conflitti di competenza.

Tornato a Mantova, F. non fu granché rallegrato dal breve pontificio del 15 febbr. 1537 col quale la città veniva designata sede del concilio; né si mostrò granché grato dell’invio, sempre da parte del papa, del 21 marzo, della rosa d’oro attestante particolare stima pei Gonzaga.
F. paventava che il concilio divenisse, per lui, un dispendio e, insieme, una perdita d’autorità. Perciò si premurò di pretendere la copertura finanziaria, perciò fece presente che “nella sua città” l’amministrazione della “giustizia” competeva agli “ufficiali suoi” e che non intendeva delegarla a “giusdicenti” pontifici. Tutte “condizioni” cui il papa non accondiscese; ed annullò la decisione d’indirlo a Mantova, nell’atto stesso in cui, nel concistoro del 20 aprile, optò pel rinvio del concilio. Ed il 21 aprile il segretario privato del pontefice scriveva al nunzio in Germania Giovanni Morone come a causa della “strana” pretesa di F. – che voleva “grossa somma de denari” per arruolare fanti e cavalieri “per securezza sua et della sua città”, quasi il papa “volesse” celebrare il concilio armata manu – Paolo III avesse dovuto “prorogare” la convocazione per la necessità di “determinare… un altro loco idoneo”.

Comunque sia, l’attrito evidenzia come il profilo di F. non vada esclusivamente appiattito nella dimensione, pur evidente, della politica come intrigo e dell’intrigo come politica, né si risolva tutto nella tessitura di trame matrimoniali, né si compendi soltanto in quella sorta di svolta per cui, rispetto all’equilibrismo paterno, si dislocò – sensibile al suggerimento, del 1535, d’Andrea Doria, di contare sull’appoggio imperiale “perché le cose” dell’Impero “sono fondate sopra fondamenti stabili” laddove “quelle de’ francesi sono tutte cose incerte e vane” sicché “chi non vole esponersi al benefizio di fortuna non se ne deve punto confidare” – in una posizione filoasburgica, si situò sotto la protezione del vincente Carlo V. In fin dei conti era un’esigenza di sovranità che l’indusse a schivare il concilio. Beninteso: come statista F. fu carico di difetti, spesso rasentò l’incapacità. Non ebbe il senso della giustizia; fu privo di rigore amministrativo; adoperò le finanze pel mantenimento d’una corte sovrabbondante, pletorica che si gonfiò sino ad ottocento fameliche “bocche”, ove non si distingueva tra quanti svolgevano funzioni, adempivano dei compiti, avevano delle responsabilità e quanti, invece, vi vivevano parassitariamente; concepì la pressione tributaria, gravante sui ceti più umili, penalizzante i contadini, quale strumento per alimentare la spirale del dispendio e dello sperpero. Ciò non toglie che, lungo il suo ducato, la cui tendenza di fondo fu quella dell’aristocratizzazione e del corporarsi della società, siano racimolabili intermittenti provvedimenti, disposizioni, interventi, accorgimenti che, messi insieme, non suonano solo occasionali, ma, pure, alludono e preludono ad un abbozzo di riordino e di ristrutturazione.
In tal senso sono interpretabili l’istituzione di talune cariche – quella del “capitano generale del divieto” per reprimere il contrabbando; quella di “sindaco generale del dominio” -, il conferimento del titolo di senatore ai componenti del Consiglio marchionale. S’aggiungono: i provvedimenti protezionistici a favore della locale arte della lana; l’avvio della fabbricazione del sapone; l’interessamento per le scuole; le modalità per la formazione dell’estimo; gli inizi di sistemazione idraulico-agraria; l’utilizzo dei dazi a garantire il grosso del flusso delle entrate; la relativa protezione accordata agli ebrei (ai quali, se impose il berretto giallo nel 1531, lo fece sostituire, a diminuzione delle molestie da questo suscitate, nel 1534, con una meno vistosa cordellina), cui appaltò la gestione della Zecca e cui concesse il monopolio del prestito su pegno; la ristrutturazione della cinta muraria; la pavimentazione delle strade.

Dedicatario di vari scritti – dal Monumentum Gonzagium (ove è personaggio di spicco) di Giovanni Bonavoglia al Labyrinthus di Vincenzo Barsio, dal Belisardo, fratello del conte Orlando di Marco Guazzo al Marescalco aretiniano -, protettore, come “magnanimo signor” donante “ocium”, di Folengo (riaccolto, grazie a lui, tra i benedettini), Bandello (F. s’adoperò per ottenere per lui dalla Curia la secolarizzazione), Antonio Pigafetta (che dovette alle sue pressioni il conferimento d’una commenda dell’Ordine gerosolimitano), avvalentesi quale segretario del dotto Giovanni Giacomo Calandra, corteggiato (e a sua volta F. ne fu infatuato), dall’Aretino che avrebbe voluto essere il suo cantore ufficiale (soprattutto con la Marfisa, che avrebbe dovuto proporsi come l’equivalente dell’Ariosto per gli Estensi) e non esitò a proclamarlo virtuoso deposito di “pietate”, “verità”, “fede”, “clemenza”, elogiato come valoroso guerriero dal Giovio che a lui professò “servitù”, celebrato dall’Ariosto (le cui commedie F. avrebbe preferito in prosa) quale “d’Italia onore”, dipinto dai più celebri pennelli tra i quali quello di Tiziano, F., in quest’eccezionale convergenza a suo riguardo di letterati ed artisti, acquistò una statura di gran lunga eccedente i suoi effettivi peso specifico e peso relativo. E Baldassarre Castiglione, nel Cortegiano, non esitò – pur scrivendo il suo trattato quando era ancor fresca la memoria di F. capitano della Chiesa latitante e connivente coll’Impero – a presentarlo come colui che, all’inizio del ‘500, “sembra ora l’unico principe italiano che possa, ragionevolmente, uguagliarsi, in virtù, al re di Spagna, Francia e Inghilterra”. Sarebbe F., allora, stando al dialogo castiglioneo – supposto nel primissimo ‘500, epperò composto un ventennio dopo -quello in cui riporre “maggior speranza”, quasi traluca in lui una terribile grandezza redentrice. Se si pensa che, in pieno sacco di Roma, F. scriveva a Fabrizio Maramaldo, il 22 maggio 1527, di procurargli – visto che nella città spadroneggiava, visto che la teneva alla sua “mercé” – “alcuni pezzi antichi”, specie sculture in bronzo ed in marmo, per adornarne le sue ville marchionali, quello che impressiona nel passo di Castiglione (il quale, plenipotenziario di F. a Roma, ne aveva assecondato anche le trufferie; e, laddove, in una lettera del 13 febbr. 1521, auspicava seriamente l’impiccagione dell’incauto “balestriero” che, con mossa maldestra, aveva impedito la vittoria, in una gara, della cavalla “di Vostra Excelentia”, pare, moralmente, della stessa pasta di F.) non è tanto la piaggeria cortigianesca, quanto il degrado della “speranza”, nella sua accezione semantica. Espressione, al pari, d’altronde, di Castiglione, d’un mondo senza speranze, F. non ha niente del principe scolpito da Machiavelli, nel quale anche il male, anche il delitto si situano in una dimensione grandiosa.

La malvagità di F. – documentabile: per capriccio, ad esempio, fece trucidare di soppiatto Giovanni Stefano Rozzoni, già suo precettore; e se ne sdegnava Isabella (“marchese”, lo rimproverò, “voi ingannate gli uomini, ma non ingannate Dio”) – ha un che di meschino, di miserabile; ne emana un sentore di palude; v’è il tanfo della bassura morale. Ed il delitto diventa in F. viltà servizievole, quando fa capire alla Curia romana irritatissima dalle punzecchiature dei pronostici dell’Aretino, che, essendo il maledico scrittore – che, peraltro, F. non esita a proclamare “astrologo” e “profeta divino”; e lo riempie di regali, lo ospita nell’appartamento già occupato dal duca d’Urbino Francesco Maria, e gli dà del “messere” e del “signore” – suo ospite (e ciò con gran divertimento di F., ché, con la sua scintillante conversazione, equivale ad “un infinito numero di virtuosi”), può benissimo farlo eliminare.
Piccolo principe di piccolo Stato F., invischiato in una dimensione irredimibilmente subalterna nella quale si muove con furberia e, se è il caso, con bassezza, epperò ingigantito dallo sfondo d’una corte spropositatamente ipertrofica cui è riconducibile la rinomanza artificiosa della menzione dei letterati e dei ritratti dei pittori. Non più che astuta comparsa in un’Italia terreno di scontro tra Carlo V e Francesco I, F., però, se collocato nello splendore della sua corte, si trasfigura. Diventa un grande signore rinascimentale. Impressionante episodio, nel 1529, l’incontro tra Carlo V e Tiziano, presentato da F. all’Imperatore: Carlo V licenzia il pittore con un ducato d’oro, mentre F. ne aggiunge ben 150 di propri. Il primo resta imperatore anche se taccagno; F., per esistere, deve figurare. Ma proprio questo lo innalza a protagonista – e, in questo caso, attivo, ché la sua committenza è determinata, consapevole, imperiosa, è sin progettualità – d’una stagione di bellezza che dalla corte ridonda su Mantova tutta sicché questa, a detta del Vasari, merita d’essere chiamata “non più Mantova, ma Roma”. Il pieno affidarsi di F. a Giulio Romano, chiamato tramite Castiglione, è l’episodio propulsivo d’una dispiegata sintonia tra le esigenze incalzanti del committente e la capacità esecutiva d’un artista versatile ed inventivo, che, per certi versi, si concepisce quale Mercurio fedele interprete del suo signore e, per altri, quale Prometeo travalicante.
Ne sortisce la trasformazione delle scuderie nel palazzo Te ove pittura ed architettura gareggiano rilanciandosi a vicenda per creare spazi di voluttuosa bellezza. Un palazzo quadro – e vertice relativo ed assoluto del manierismo, in questo, la sala dei Giganti – questo del Te, eretto per “l’onesto ozio” di F. e, di fatto, ospitante la vicenda d’amore con la Boschetti, ove la geometria dell’architettura incornicia il fantasioso volteggiare dell’estro pittorico che lusinga allusivo e l’orgoglio e l’inclinazione al piacere di Federico. In una Mantova nella quale si restaurano chiese, se ne costruiscono di nuove, viene completata la sede della dogana, si rafforza il ponte di S. Giacomo, si irrobustisce la cinta muraria, si fortifica il settore tra porta Cerese e porta Pusterla, è l’instancabile operosità di Giulio Romano (la cui straripante personalità è, comunque, anche in grado di formare, mobilitare e dirigere vere e proprie équipes di collaboratori) il fulcro d’un’intensa attività che s’allarga dagli edifici ducali alle più grandi costruzioni pubbliche e alla costellazione delle residenze estive. S’abbellisce il palazzo ducale e s’allarga d’una nuova ala per ospitare Margherita, la sposa di Federico. Sorgono, attorno a Mantova, per ospitare i piaceri e nasconderli, le ville suburbane Imperiale (cosiddetta in ricordo del passaggio di Carlo V) e di Marmirolo, la “casa”, così Alfonso Ulloa, ove “si poteva… giudicare … fosse ridotta tutta la bellezza et politezza d’Italia”.
Appassionato F., al pari della madre, d’antichità ed intenditore d’arte – e non senza scelte indicative d’un gusto ben preciso quale l’acquisto in blocco del 1535 di ben centoventi quadri in Fiandra che qualifica la quadreria da lui voluta come la più importante raccolta italiana di pittura fiamminga (e il fatto chiami, nel 1539, il brussellese Niccolo Carcher a riattivare l’arazzeria è ulteriore prova di questo suo orientamento). Ma non solo: è coll’iconografia che nobilita la sua prassi politica; è colla pittura che esprime le sue illusioni di grandezza. Il camerino dei Cesari, nel palazzo ducale, coi ritratti degli imperatori dipinti da Tiziano sublimano di romanità la sua dipendenza da Carlo V. E il ricorrere altrove dell’immagine di Giove è indice del suo autoidentificarsi con questa divinità dominante: c’è ben, sempre nel palazzo ducale, la camera delle teste, con, nella volta, Giove in trono circondato da nubi. Ne fuoriesce una sorta di angelo squadernante l’iscrizione “reges in ipsos imperium est Iovis”. Col che l’apparato decorativo attinge al massimo dell’autorisarcimento.
Preceduto dalla madre, che scomparve – senza che egli desse segni di particolare dolore – nella notte tra il 13 e 14 febbr. 1539, F., per l’aggravarsi della lue che da tempo lo tormentava, morì nella villa di Marmirolo presso Mantova il 28 giugno 1540.

Avete perduto “ung bon serviteur” scriveva il 10 luglio all’imperatore Carlo V il fratello Ferdinando. Naturalmente, appresa la scomparsa di F., l’Aretino rinunciò al proposito – manifestato in una lettera del 16 febbr. 1540 – di mettersi a scrivere della “bontà del catolico” F. collo stesso “fervore che forse un di… sarò visto predicare il nome di … Cristo”. Si limitò a piangere – nelle sue lettere del novembre e del dicembre – “il fresco andar sotterra del magnanimo duca di Mantova”, uomo, assicurava, “di placida affabilità, di pronta cortesia, di dolce aspetto e di mansueta natura”. Quanto agli ottocento cortigiani, il reggente, il fratello di F. card. Ercole, li ridusse a trecento. Quanto, poi, alla Boschetti, sposerà nel 1542 il conte Filippo Torniello e morrà nel 1560.
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