Ferdinando

a cura di GINO BENZONI


Scheda pubblicata in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XLVI, Roma 1996, pp. 243-252. La presente scheda è stata inserita grazie alla autorizzazione rilasciata dall’ISTITUTO DELLA ENCICLOPEDIA ITALIANA fondata da Giovanni Treccani [Prot. 495/04/DE del 19 novembre 2004] che si ringrazia per la disponibilità.


Secondogenito del principe e prossimo duca di Mantova Vincenzo e d’Eleonora de’ Medici, F. nacque a Mantova il 26 apr. 1587; e, nel battesimo del 24 giugno, il re e la regina di Francia si fecero rappresentare si da figurare rispettivamente come padrino e madrina. Destinato, giusta una collaudata tradizione gonzaghesca, in quanto cadetto, al cardinalato, in vista di questo venne accuratamente istruito.

Dopo i primi apprendimenti mantovani nei quali furono suo maestro il dotto abate di S. Barbara Aurelio Pomponazzi e suo insegnante di matematica Giovanni Antonio Magini, F., nel 1599-1602, perfezionò la propria preparazione all’università di Ingolstadt, roccaforte avanzata della cultura controriformista. Seguirono altri tre anni di studio presso l’ateneo di Pisa, dove – stimolata dalle recite e dagli spettacoli concomitanti coi soggiorni della corte medicea – esplose la sua passione per la musica ed il teatro. Sicché F. adolescente risultò dotato d’un ragguardevole bagaglio culturale: sapeva di filosofia, teologia e diritto. Facilitato, inoltre, da una spiccatissima memoria, ostentava altresì una strabiliante conoscenza delle lingue: ottimo, e a voce e per iscritto, il suo italiano. piena la sua padronanza del latino e del greco; agile e corretto il suo esprimersi in francese, tedesco e spagnolo. E pare sapesse persino l’ebraico, come annoterà, con stupita ammirazione, anni dopo, l’ambasciatore veneto Giovanni Da Mula.

Chierico e cavaliere gerosolimitano, F., una volta elevato, il 10 dic. 1607, alla porpora da Paolo V, risultava – grazie al sommarsi dei benefici ecclesiastici a suo vantaggio lungo il tempo quali il priorato di Barletta e l’abbazia monferrina di Lucedio e “altri” – titolare d’una rendita che s’aggirava Sui 25-30.000 ducati annui, elevabile, stando alla relazione del 21 gillgno 1608 dell’inviato veneto a Mantova Francesco Morosini a 50.000 ducati, qualora il padre, “per scarico di coscienza”, rinunciasse ad “entrate” di per sé spettanti al figlio.

Intenzione di F. – precisava Morosini – serbare, in seno al Collegio cardinalizio, una fisionomia “neutrale”, non “dipendere”, cioè, dalla Francia e dalla Spagna, a costo di rinunciare alla “pensione” e ai obenefizi” che entrambe gli prospettavano. Un proposito, questo, tutt’altro che fermo, dal momento che F., schivate le pressioni del card. Pio di Savoia per guadagnarlo al gruppo capeggiato dal filofrancese card. Pietro Aldobrandini, finì, in un primo tempo, col trovarsi “unito” al card. Scipione Borghese Caffarelli tutt’altro che ostile alla Spagna. Una collocazione provvisoria, ché ben presto modificata dal titolo di protettore della monarchia francese per lui ottenuto dalla vedova d’Enrico IV e dal soggiorno presso la corte di questa nel 1611. Ne derivava che – come sottolineò nella sua relazione il veneziano Pietro Gritti, inviato straordinario a Mantova nel luglio del 1612 – F. era totalmente “appoggiato all’autorità del regno di Francia”. E ciò con gran profitto avendo, quantificava Gritti, “finora ottenuto in quel regno, fra pensioni e benefici ecclesiastici, per 30.000 ducati di rendite”. E c’era da “credere”, soggiungeva lo stesso, che Maria de’ Medici fosse intenzionata ad accrescerle tper renderselo più obbligato e dipendente”.

Filofrancese, dunque, il giovane porporato e, insieme, d’ostentato sentire antispagnolo al punto da aggirarsi nottetempo per Roma mascherato e spalleggiato da giovani pure in maschera alla caccia di qualche spagnolo da provocare verbalmente e, pure, da malmenare. F. era brillante, spiritoso, mordace e – man mano la Francia lo pagava – sempre più motteggiante ai danni della Spagna; in ogni caso il suo sontuoso tenore di vita abbisognava d’essere costantemente alimentato da un cospicuo flusso di denaro. Assai mondano, la veste cardinalizia non impacciava per niente la libertà dei suoi disinvolti movimenti e comportamenti, ispirati esclusivamente da un’esasperata ricerca del piacere. Ma non c’era, in lui, solo dispersiva frivolezza, ché è pur riscontrabile una sincera passione per la bellezza e per l’arte. Leggiadro, galante, “amabilissimo” d’aspetto, elegante nell’abbigliamento e nel tratto, tutto “profuso nelle spese”, F. si trastullava allacciando molteplici relazioni, intrattenendosi in svariati amoretti, imbastendo futili tresche, non senza, talvolta, invaghirsi o fingere d’invaghirsi, indulgendo, in tal caso, al vezzo di verseggiare.

Si distingue, tra i volti di donna attorno a lui convocabili, quello della cantatrice Andreana (Adriana) Basile, l’ “Armida napoletana” che tanto piaceva a suo padre, mentre egli ne fu incantato solo per un po’ dal momento che, ad un certo punto, smise di rispondere alle sue stuzzicanti missive. Il giovane prelato era si sensibile all’avvenenza femminile, e si sempre disponibile a nuove avventure, ma mai disposto, in queste, a un serio coinvolgimento affettivo.

Ma, pur assecondando il volubile trascorrere dei suoi capricci, F., nei confronti delle lettere, della musica, del teatro e delle arti figurative era capace d’impegno e d’intendente interessamento. Donde il crescente intensificarsi dei suoi rapporti con letterati, musicisti, artisti all’insegna d’una curiosità sempre desta, d’una partecipazione sollecitante, d’un aggiornato criterio di scelta, d’un gusto affinato e avvertito. A lui fecero, perciò, riferimento Gabriello Chiabrera, Michelangelo Buonarroti il Giovane, Carlo Saraceni, Domenico Fetti, paesaggisti quali Antiveduto Gramatica e Paolo Bril; per suo conto Nicolò Sebregondi, nel settembre del 1612, si recò a Frascati a disegnare ville; grazie a lui Caravaggio, nel 1610, fu assolto dall’accusa di assassinio. Figura la cui presenza è avvertibile negli albori del melodramma per la sua autorevolezza presso i musici fiorentini, F. – che fu autore di balletti e, pare, di almeno quattro libretti – ebbe, quanto meno, un ruolo promozionale, con Peri, con Frescobaldi da lui incoraggiato alla composizione delle “toccate”, con Rinuccini che da lui talmente dipendeva da fargli da servizievole intermediario e sin da paraninfo se l’amante del momento era fiorentina. È senz’altro F. – fautore, oltre che membro, dell’Accademia fiorentina degli Elevati – “il gran protettore della musica” e “grande intenditore di essa” indicato, senza precisazione del nome, da Marco da Gagliano come autore di quattro arie, musicalmente assai rilevate, della Dafne, la favola pastorale da recitare cantando e rappresentata a Mantova nel 1608. Non solo, dunque, committente F., ma anche compositore, sia pure occulto, sia pure intermittente. Né fu solo superficiale il suo interesse per la scienza se, nel 1611, era in grado di discutere a Firenze con Galilei dei “corpi galleggianti”. E, a tavola del granduca, nacque un garbato dibattito tra F. e il card. Barberini (il futuro Urbano VIII), che, invece, in fatto di galleggiamento dei solidi, concordava con Galilei.

Ma la morte, il 22 dic. 1612, del fratello Francesco, da poco duca di Mantova, pose bruscamente fine a quest’esistenza – insieme piacevolmente mondana e culturalmente partecipe – del giovane e dotto cardinale, il quale, messosi in viaggio, sul finire del 1611, per la Spagna e la Francia, al rientro da Parigi – quivi insignito da Maria de’ Medici dell’Ordine di S. Michele – si trattenne per qualche tempo a Torino insistendo col maestro di camera Andrea Barbazza perché Carlo Emanuele I liberasse dal carcere Giambattista Marino. Appresa il 25 la notizia del decesso di Francesco, F. si precipitò a Mantova.

Qui il sospetto di una gravidanza della cognata Margherita, figlia di Carlo Emanuele I di Savoia, ad arte prolungato – “si dà fama … sia gravida” riportava una lettera di P. Sarpi del 29 genn. 1613; “sprovvistamente ella si è dichiarata non gravida” annoterà, però, lo stesso il 26 marzo non senza ipotizzare un prossimo “matrimonio” tra il “nuovo duca” F. e la “vedova” – da un lato intralciava l’insediamento di F., dall’altro offriva spazio alle manovre sabaude. Si formarono, infatti, nella corte gonzaghesca, due fazioni, una propugnante la piena assunzione dei potere da parte di F. (che, distinguendosi così dal defunto fratello, di cui non condivideva la passione pei cani, come licenzia gli ottantatré addetti a questi, simultaneamente assume ventuno musici), l’altra rallentante il più possibile la successione e, all’uopo, utilizzante la fittizia attesa d’un figlio. Questa era un mero pretesto. Carlo Emanuele I – che s’era subito premurato d’inviare ad assistere Margherita il conte Francesco Martinengo ed il figlio Vittorio Amedeo – non contava tanto sulla nascita d’un nipote maschio, ma mirava, in realtà, a che la principessa Maria, nata nel 1609 da Margherita e Francesco Gonzaga, si trasferisse con la madre a Torino si da essere utilizzabile per le sue mire sul Monferrato, feudo trasmissibile anche per via femminile. Ma l’opposizione di F., appoggiato dalla Francia, fu ferma. Sicché, il 26 marzo, la cognata lasciò Mantova senza la piccola Maria che – collocata nel convento delle orsoline ove rimarrà sino al 1627 (e di lei si occupò la prozia paterna Margherita Gonzaga, vedova d’Alfonso II d’Este, e fu suo maestro di musica Claudio Monteverdi) – rimase in custodia di F., coll’esplicita approvazione dell’imperatore Mattia.

Un bruciante smacco per Carlo Emanuele I, il quale – oltre a rivendicare la tutela della nipotina titolare di diritti di successione monferrina – reclamò la restituzione della dote della figlia e sinanco il pagamento, coi relativi interessi, della dote di Bianca di Monferrato che, nel suo testamento del 1519, aveva designato come erede universale il duca Carlo II di Savoia detto il Buono. Né si limitò a verbali recriminazioni; avviò, infatti, il 23 aprile energiche operazioni militari, le quali – dopo la rapida occupazione seguita da saccheggi di Alba, Trino, Moncalvo – proseguirono coll’assedio di Nizza Monferrato. Immediato, però, l’allarme suscitato dalle disperate proteste dei diplomatici mantovani presso le varie corti, ove prevalsero le ragioni di F. che – se evanescenti laddove riesumavano antichi diritti gonzagheschi sul marchesato di Saluzzo e su Torino e Mondovì – suonavano senz’altro convincenti nel richiamo al lodo, del 3 nov, 1536, di Carlo V assegnante, appunto, ai Gonzaga il Monferrato. Donde la pressoché unanime condanna del brutale operato sabaudo che indignò soprattutto Filippo III re di Spagna. Sicché Carlo Emanuele I, isolato diplomaticamente, fu costretto a far ritirare, il 24 maggio, le sue truppe dall’assedio di Nizza Monferrato. Segui, il 18 giugno, a Milano, un accomodamento, il quale prevedeva la consegna – in mano spagnola, però, e cesarea – delle terre occupate da parte del duca sabaudo e, da parte di F., la rinuncia alla custodia della piccola Maria. Ma il disaccordo in sede d’applicazione – Carlo Emanuele I esigeva che F. rinunciasse al risarcimento dei danni subiti, s’impegnasse a non perseguire i monferrini con lui compromessi; e, per di più, non intendeva disarmare – finì col contrapporre la Spagna e il Piemonte, in uno scontro diretto, cui malamente i due trattati di Asti, del io dic. 1614 e del 21 giugno 1615, s’ingegnarono di porre fine. E, mentre F. era istigato dal governatore di Milano don Pietro di Toledo a non preoccuparsi di rispettarli, occorse attendere l’accordo di Pavia del 9 ott. 1617 perché F., grazie al concludersi della guerra ispano-piemontese, rientrasse in possesso d’un Monferrato straziato dalle devastazioni belliche, colle campagne ridotte alla fame, con i centri stremati e degradati a una sopravvivenza appena larvale.

Un incubo per F. l’aggressività di Carlo Emanuele I, che certo non poteva fronteggiare da solo. E un’amarezza, per chi aveva fatto divertire il bel mondo romano colle sue celie antispagnole, doversi affidare alla Spagna e quasi nascondersi dietro di lei. “Mi trovo nel travaglio” – confessava F. all’inviato veneziano Simone Contarini il 19 luglio 1617 – e “non posso spiccarmi da Spagnoli, sebbene, “non viva contento né soddisfatto di loro”. Comunque, “non veggo il modo di dipartirmene”, precisava sconfortato.

Senza possibilità, dunque, d’autonoma e dignitosa politica estera, F., e, quindi, per tal verso sin avvilito e depresso. Per fortuna poteva consolarsi con la musica sua precipua “ricreazione” e “reffrigerio o sollievo”, come osservava, nel 1615, l’ambasciatore veneto- Giovanni Da Mula. Ed in tal campo non era solo un finissimo intenditore, ma autore in proprio; e le sue “composizioni” venivano sollecitamente eseguite dal folto “coro di cantori” della cappella di S. Barbara e da tre singolari virtuose di canto presenti a corte. Né, per quanto attaccato dal duca sabaudo, per quanto subalterno alla Spagna, per quanto ricattabile dal suo governatore a Milano, era più in discussione, come nel drammatico esordio, la sua titolarità al governo: giunta, il 21 ott. 1613, l’investitura dell’imperatore Mattia, depose l’abito ecclesiastico e rinunciò, nel dicembre, al cappello cardinalizio, sicché poté con piena autorità proibire l’arruolamento per altri principi, ridurre il valore delle monete, vietare l’utilizzo dei bravi, riformare l’arte della lana, stabilire le mercedi della manodopera, mentre, a compiuta formalizzazione della sua veste ducale, ci fu l’incoronazione del 6 genn. 1616, dopo che, il 16 novembre dell’anno prima, aveva deposto, a ciò delegando appositi procuratori, il pileo e il galero ai piedi di Paolo V, peraltro supplicando il cardinalato – ed in ciò accontentato subito dal pontefice nella promozione del 2 dic. 1615 – pel fratello Vincenzo.

Inquinante la serenità dei suoi giorni il “difficilissimo e invilupatissimo negozio” monferrino a causa del quale s’appalesano tutta la sua debolezza sul piano militare e la conseguente necessità d’aggrapparsi ad interessate protezioni. Ciò non toglie che F. vivesse splendidamente – è sempre Da Mula a sottolinearlo – in “un amplissimo e nobilissimo palazzo” che, “riccamente addobbato di paramenti … razzerie … pitture”, con la sequenza di “gallerie” affrescate e “ripiene” di quadri, con uno sterminato dispiegamento di “logge, sale, corridori, cortili e giardini”, alcuni dei quali sopraelevati, allo stesso livello delle innumeri “stanze”, con “stalle”, in grado d’ospitare duecentocinquanta cavalli. Quanto alla dimora F. era di gran lunga superiore al suo terribile nemico sabaudo. Abitava in un’autentica sontuosa e maestosa reggia, degna d'”ogni gran re”. Rimarchevole, altresì, sempre a detta del Da Mula – che ammirava in F. il senso della “giustizia” e il connesso scrupolo di non lucrare assolutamente sulle condanne, a costo d’impegnare, dato che rinunciava a questo cespite, “argenti” e “gioie” -, il suo gloriarsi “di non aver in Mantova né senato né consiglio né altro magistrato che sia proprio della città”.

F. aveva, invece, a propria disposizione “quello” da lui stesso designato – era questo il “consiglio” composto dai “quattro soggetti”, ossia Gregorio Carbonelli, Alessandro Striggi, Annibale Iberti, Annibale Chieppio (quest’ultimo il più autorevole e, virtualmente, il primo ministro), da F. scelti – e completamente dipendente “dalla sua volontà”. Anche se minacciato dall’esterno, anche se fragile nel contesto internazionale, F., sul piano interno, in effetti beneficiava dell’esito d’un processo – svoltosi lungo il ‘500 – di strutturazione del potere che aveva ormai rimosse le implicanze di residui condizionamenti da parte di organismi rappresentativi. Al vertice d’una gerarchia cortigiana F. si sentiva titolare d’un potere assoluto, era fiero dell'”assoluta disposizione” del Ducato. E, poiché il “consiglio” si riuniva quotidianamente, esso era già, nel suo decidere in assenza di F., potenzialmente una sorta di gabinetto dei ministri, che, guidato dal Chieppio, avrebbe dovuto mettere in moto l’ordinato ritmo della macchina statale. Ma siffatta moderna potenzialità restava sterile ché impiantata su d’un tessuto smagliato e sin slabbrato caratterizzato da un’amministrazione locale intermittente, da un funzionariato creditore d’anni e anni di stipendio, senza un criterio d’ordinamento archivistico, senza il supporto della coordinata efficacia d’un continuato lavoro di cancelleria. Né la coazione ad accendere nuovi debiti per tamponare i vecchi provocata dall’imperterrito dilapidare di F. giovava all’avvio d’un embrionale Stato macchina.

Quanto al Monferrato, caduta l’ipotesi di “concambio” o permuta col Cremonese, per cui il primo sarebbe passato alla Spagna e il secondo al Ducato gonzaghesco che avrebbe, così, goduto il vantaggio della continuità territoriale, non restava a F. che la trattativa diretta col bellicoso duca sabaudo. Questa s’avviò nel 1618 e proseguì – incoraggiata dalla Francia e assecondata dalla Serenissima – nel 1619, complicandosi quindi allo scoppio della guerra di Valtellina, rispetto alla quale F. e Carlo Emanuele I erano entrambi ufficialmente preoccupati fosse la Spagna a controllare questa fondamentale via d’accesso di truppe dalla Germania alla penisola.

Ciò non toglie che ognuno dei due brigasse per proprio conto a danno dell’altro. F., attribuendosi qualità militari inesistenti, si offrì alla Spagna come comandante d’un contingente di 2.000 soldati monferrini e d’altri 3.000 uomini reclutabili nel Milanese. Filippo III, nel timore d’avere contro il Savoia – di F. ben più paventabile -, cercò di attrarlo nella sua orbita lusingandolo con la possibilità d’un suo atteggiamento a lui favorevole nella pendenza con Ferdinando. E questi, atterrito dall’eventualità d’un accordo ispano-sabaudo a suo danno, che per sua fortuna venne meno alla morte, il 31 marzo 1621, di Filippo III, si sbilanciò tutto dalla parte della Francia.

Comunque, il negoziato tra Mantova e Torino – dopo tante contorsioni tergiversanti, dopo tante reciproche diffidenze, pur nel proseguire delle riserve, pur nel persistere dei maneggi e dei contromaneggi -, imboccata la via della segretezza, concordi i due almeno nel sottrarsi alle altrui pressioni, esitò, alfine, nel patto di Torino del 6 maggio 1624.

In virtù di questo F. – che, insistendo sul vantaggio per la Spagna d’un possesso per cui sarebbe penetrata “sin nelle viscere del Piemonte” così costringendone il duca ad “unirsi” con lei, aveva invano ritentato di guadagnare Madrid al baratto col Cremonese – s’impegnava a cedere al Savoia terre monferrine equivalenti alla dote, da restituire, di Margherita; quanto alla dote di Bianca di Monferrato, ammontante a 300.000 scudi, era ulteriore impegno di F. cedere altre terre pel valore di 200.000 scudi e pagare i 100.000 restanti in contanti. E a rendere definitiVa la soluzione provvide la prospettiva d’un duplice matrimonio, per cui la nipote Maria avrebbe dovuto sposare Emanuele Filiberto, terzogenito di Carlo Emanuele I, mentre il successore di F. avrebbe dovuto accasarsi con una Savoia.

Una volta nota, siffatta pattuizione torinese suscitò scalpore, disappunto e fu disapprovata. E, per di più, ben presto traballò: la morte, il 4 agosto, d’Emanuele Filiberto la privò d’un fondamentale puntello, ché F. si sentì da questa autorizzato ad intendere per annullato anche il resto di quanto concordato. Vittima dell’incancrenita questione monferrina F., in questa invischiato e da questa sballottato, sapeva soltanto che non era in grado di risolverla con le proprie deboli. forze: non era, lo riconobbe più volte, “habile” a difendersi da “solo” dall’aggressività di Carlo Emanuele I, i cui “pensieri torbidissimi”, sempre mossi dalla “cupidigia” d'”occupare l’altrui” non gli davano requie. Nel contempo non voleva cedere. Donde il suo aderire ad impegni che poi non rispettava, il suo essere sempre ricattabile e, pure, sempre inaffidabile. Donde il suo affannoso destreggiarsi nell’almanaccare cavillosi espedienti. E ciò moltiplicando iniziative diplomatiche svolte parallelamente, ma anche confusamente su più scacchiere, ché non aveva la capacità d’armonizzarle; tanto più che le sue contraddittorie direttive si moltiplicavano per l’interpretazione personale del singolo rappresentante.

F. avrebbe voluto avere dalla sua e Francia e Spagna e Impero. A tal fine, ancora nel 1620, scriveva, il 17 settembre, a Filippo III facendo appello alla sua “benigna protettione”; ciò non toglie che, il 2 ottobre, si rivolgesse a Luigi XIII quale suo “singolarissimo protettore”. Il 2 genn. 1625 scriveva all’imperatore Ferdinando II “sperando nella sua protettione”, e il 14 marzo proclamava a Filippo IV “la costantissima” sua “volontà et inconcussa divozione verso il servitio di Sua Maestà”, senza per questo rinunciare, il 24, a rendere “liumilissime gratie” a Luigi XIII per la “benigna esibitione” di questo “di tener salvo il mio stato di Monferrato”. E allo stesso riscriveva, il 14 febbr. 1626, per asserirgli: “io vivo sotto la protettione di Vostra Maestà”. Fatto sta che i suoi rappresentanti piativano ovunque e ovunque assicuravano devozione, senza che questa venisse gran che apprezzata visto che – appunto – era contemporaneamente offerta ad altri.

Un’incoerente politica estera quella di F., spesso travolta dai fatti, spesso in preda al panico, che oscillava e barcollava vieppiù anche per le rivalità e le gelosie dei ministri che, spiandosi l’un l’altro, s’intralciavano e si danneggiavano. E F. – nel suo continuo appellarsi a Madrid, a Roma, a Venezia, a Parigi, a Praga – riconosceva, ancora in una sua lettera del 30 luglio 1618, d’essere “esausto” a causa delle “calamità del Monferrato” ; “per un longo corso d’anni”, prevedeva sconsolato, non gli sarebbe stato nemmeno lecito sperare d'”alzar il capo”. Sarebbe stato inchiodato per sempre – egli l’avvertiva con angoscia – ad una subalternità priva di dignità. Né giovavano a questa i pasticci matrimoniali in cui egli e il fratello Vincenzo, subentratogli nel cardinalato, si erano cacciati.

Il secondo, malgrado la porpora, si sposò, il 10 ag. 1616, con l’intensamente ma anche brevemente amata Isabella Novellara, pentendosi di li a poco, sicché F. s’adoperò – a tutta prima vanamente – per ottenere da Paolo V “la giustitia del dovuto annullamento”. Negato questo, montò, insieme col fratello, privato, il 5 settembre, della dignità cardinalizia, contro la Novellara l’accusa di maleficio; e questa, che sarà liberata e prosciolta il 5 genn. 1624, preferì il carcere romano al veleno e al pugnale dei Gonzaga. Alla disavventura di Vincenzo s’aggiunse quella, sempre matrimoniale, dello stesso F., che, scombussolando le ipotesi nuziali dei suoi consiglieri, s’era sposato, con cerimonia ingannevole, nel febbraio dello stesso anno, con la bellissima e castissima Camilla Faà, figlia quindicenne del conte monferrino Ardizzino. Di lei veementemente innamorato, F. pur d’averla era appunto ricorso – colla complicità di Gregorio Carbonelli, abate di S. Barbara e vescovo di Diocesarea oltre che suo ministro – ad una cerimonia nuziale che, presa sul serio dalla fanciulla, risulterà invalidabile per violazione dei relativi canoni. Tant’è che – agevolmente annullato il matrimonio farsa – F., deposte le ragioni del cuore e fatte proprie le convenienze della ragion di Stato, poté acconciarsi a nozze regolari con Caterina de’ Medici, sorella del granduca di Toscana Cosimo II. Giunse, il 5 febbr. 1617, a Firenze – ove il 6 si rappresentò la Veglia sulla Liberazione di Tirreno e dArnea, autori del sangue toscano, su soggetto d’Andrea Salvadori, con coreografia di Agnolo Ricci, musiche di Marco da Gagliano, macchine e congegni ideati da Giulio Parigi – per sposarvisi il 12. Nel frattempo la giovinetta amata – cui, coll’inganno, era stata persino sottratta la dichiarazione autografa di F. colla quale la riconosceva sua legittima consorte – venne relegata a Casale. Ma, mentre da lei F. aveva avuto ancora il 4 dic. 1616 il suo unico figlio, Giacinto, le nozze colla Medici risultarono sterili. Né F. ebbe, nei confronti di questa, alcun trasporto e continuò a frequentare Camilla Faà, sinché questa fu costretta dalla gelosia della moglie a riparare a Ferrara, dove – monaca col nome di suor Caterina Gonzaga nel monastero del Corpus Domini – morì nel 1662. Giacinto, invece, rimase a Mantova, fatto allevare con cura dal padre; ma non ebbero esito i suoi sforzi – ingenerosamente contrastati dalla duchessa – per legittimarlo.

Clamorosamente stridente – durante tutto il governo di F. – il contrasto tra lo splendore della corte e la debolezza dello Stato; da un lato la sontuosità delle feste, dall’altro la miseria dei sudditi specie monferrini. Incontrollato, sin pazzesco il ritmo delle spese. Disastrate, perciò, le pubbliche finanze sospinte, proprio da F., sul precipizio dell’ultima irreparabile rovina, evidenziata dall’enorme quantità, ormai irriscattabile, d’argenteria e gioielli impegnati presso il Monte di pietà della vicina Verona.

Mancò una drastica contrazione delle spese per il personale al seguito di F. e anche di Vincenzo che sfiorarono, nel 1622, 46.000 ducati. Ardua una seria revisione contabile dei costi di gestione laddove non c’era scrupolo nella tenuta dei “registri d’entrata e d’uscita”. Né v’era possibilità di risanamento finanziario laddove continuo era il ricorso ai prestiti forzosi, all’indebitamento spropositato. Aggravava la situazione la non controllata instabilità dell’andamento dei cambi e s’esasperava la “peste monetaria” dell’alterazione delle monete, a scorno dei roboanti proclami di F., sicché restò infrenata l’ascesa dei corsi abusivi. Né gli editti di F. valsero a placare la tensione tra corsi di piazza e corsi tariffari. E fu ulteriore aspetto contraddittorio del governo di F. l’incapacità a metter ordine in casa propria (vale a dire ad arginare il costo spropositato della corte) e la pretesa di regolamentare a suon di grida e prescrizioni – in fatto di pesi e misure, di numero d’osterie e di locande, di pulizia delle strade, di sericoltura, di lavori in ferro, di concessione di cittadinanza ai rustici, di versamenti straordinari pro capite – la vita stessa della popolazione, sulla quale pioveva un sin troppo abbondante coacervo di disposizioni.

Non che il Ducato di F. fosse privo di spunti positivi – determinati lavori idraulici, ad esempio; oppure l’istituzione, nel 1624, dello Studio che, affidato ai gesuiti, si qualificò, se non altro per questo, rispetto agli atenei di Ferrara e Padova (e non è da escludere F. non avesse in mente quello di Ingolstadt) -, solo che questi non si unificarono in un vigoroso programma di buon governo, non s’inquadrarono in una linea di corretta amministrazione. E l’assenza di questa era imputabile prima ancora che a F. alle dissennate follie del suo dispendiosissimo padre Vincenzo. A questo risaliva un andazzo rovinoso cui F. – lungi dal bloccarlo – si adattò. E va, forse, aggiunto, a sua scusante, che gli mancò, per avviare un riordino a fondo ed un’iniziativa complessiva di respiro, la premessa d’una rasserenata atmosfera internazionale rispettosa della tranquillità dei suoi domini. Sempre più cupo e minaccioso il mondo circostante man mano il prevedibile “mancamento” di legittima “discendenza mascolina” da parte di F. e di suo fratello Vincenzo drammatizzava la questione della successione. Preoccupante per F. il riaccostamento ispano-sabaudo dell’inizio del 1621; ed egli sperò che l’imperatore Ferdinando II, il quale, il 21 nov. 1621, sposò, per procura, sua sorella Eleonora, potesse e volesse proteggerlo. Ad ogni buon conto F. si volse a Parigi, tanto più che il ramo dei Gonzaga Nevers appariva quello più legittimato all’insediamento nel Ducato. Auspice la Francia s’infittirono i segnali di simpatia tra F. e Carlo Gonzaga Nevers: questi, nel 1622, offrì l’aiuto militare di truppe da lui reclutate nelle sue terre a F. e non mancò di visitarlo, in seguito, in occasione del suo pretestuoso viaggio di devozione a Loreto; e F., cui l’ambasciatore a Parigi Giustiniano Priandi assicurava, il 6 nov. 1624, che quello era colmo “d’affetto” per lui, ne raccomandò la figlia Ludovica Maria alla sorella imperatrice Eleonora quale possibile sposa del principe di Transilvania Bethlen Gabor, che si sperava così d’indurre al cattolicesimo. Tutti chiari indizi preludenti ad una scelta che s’appalesò, nel dicembre del 1625, quando – malgrado le ire di Carlo Emanuele I – giunse a Mantova per esservi allevato il duca Carlo di Rethel, sedicenne figlio di Carlo Gonzaga Nevers, promesso sposo alla nipote di F., Maria.

Ma così già s’approssimava la bufera destinata a culminare nell’atroce sacco della città. Alla luce di questo finale il prodigo mecenatismo di F. può sembrare una pazzesca corsa verso la rovina, un irresponsabile giocare sull’orlo del precipizio. E, in effetti, il governo di F. è un po’ l’ultimo bagliore degli splendori gonzagheschi; e, come tale, ha un che di funereo, sa di morte. C’è però da chiedersi se la Mantova tremebonda di fronte al furioso ringhiare sabaudo, pressata dalla Francia e dalla Spagna non dovesse proprio al suo, malgrado tutto, sopravvivente sfavillio artistico il suo margine d’incontestata identità.

Certo F. – protettore di Marino (che dovendogli la scarcerazione, nel 1620 si diceva debitore della “vita stessa” a F.), di Basile (da lui fatto “eques auratus”), di Giovambattista Andreini, ammiratore di Frescobaldi (che a F. dedicò le sue Toccate e partiture … e a sua moglie il Settimo libro dei madrigali; ma F. non riuscì a farlo trasferire a Mantova), calamitante presso di sé musici e teatranti, committente (nel suo oscillare tra temi di rorida pietà e di prezioso edonismo, nella sua disponibilità e alla religiosità effusa e ad allusivi esoterismi) di pittori come Reni, Guercino, Francesco Albani, Van Dyck, interessato, tramite Scioppio, alla sorte di Campanella, disponente di Gabriele Bertazzolo quale “admirabilis machinarius” per gli apparati delle feste, avente il botanico Zenobio Bocchi per “sopraintendente generale a tutti gli giardini ducali”, utilizzante A. M. Viani quale “prefetto delle fabbriche” (e questi s’ingegnò d’interpretare, aderendo al cosiddetto “stile auricolare”, le propensioni di F.), incettante ovunque pur di nutrire la sua sfrenata smania collezionistica – è altra cosa da quello imprigionato nell’angustia coatta dei rapporti di forza, cui va addebitato anche lo smacco bruciante del mancato riconoscimento del titolo d’Altezza. Non è un caso volesse la drammatica sceneggiatura delle Metamorfosi ovidiane nella propria reggia. E forse la decorazione della Galleria detta di Passerino con le sue storie fantastiche di creature mutanti le sembianze originarie per volontà pietosa o irata degli dei allude alla mutevolezza e instabilità del cosmo, all’andamento capriccioso della storia, alla stranezza cangiante in cui l’uomo s’aggira stordito e stranito. Il F. radunante nel proprio eclettico museo naturalistico (con pezzi quali una zanna d’elefante pietrificata, un cuore umano tramutato in pietra dura) “naturalia et mirabilia” forse accostava le bizzarrie della storia a quelle della natura, forse situava in questa sorta di generale stravaganza lo stesso capriccioso andamento dellà sua esistenza, gli stessi sussulti del suo disastrato Ducato. In fin dei conti anch’egli – prima cardinale e poi duca, amante appassionato di Camilla e poi suo cinico ingannatore, padre intenerito di Giacinto e marito scostante di Caterina – ebbe a che fare colla metamorfosi. Non per niente predilesse il barocco. Tale è, in effetti, il luminoso colorismo della pennellata fluida e tortuosa di Domenico Fetti. pittore di corte dal 1614 al 1622 e quivi interprete delle propensioni religiose, musicali, poetiche di F., sicché si può parlare d’intesa e congenialità tra i due, sinanco d’affinità elettive. Barocca pure la Favorita, la maestosa dimora eretta per lui da Nicolò Sebregondi che a F. fu più congeniale del pur assecondante Viani; essa sorse alle porte di Mantova articolata in più corpi tra loro collegati con la sua fronte allungata con due grandi logge e con la sua doppia scalea ricurva, coi suoi magnifici interni, coi suoi giardini boschetti fontane giochi d’acqua peschiere. E fu in questa villa che Chieppio e Striggi suggerirono, nel 1618, di trasferire “la casa di Sua Altezza”, nella speranza la corte, una volta “fuori della città”, una volta sfoltita dell’eccesso di personale, finisse coi costare meno. Lo stesso F. pare per un po’ attirato dall’idea di trasformare la Favorita – a movimentare la bellezza della quale intervennero Baglioni, Reni, Guercino – in sua ordinaria residenza ducale, ma non tanto per risparmiare quanto per un’aspirazione a distanziarsi dall’ambiente urbano.Impressionante, strabiliante, nel gennaio del 1622 l’esibizione dei tesori gonzagheschi, in occasione delle prestigiose nozze imperiali, rese pubbliche il 1º, della sorella che lasciò Mantova il 20. Ma nel contempo – nel pauroso dilatarsi d’una voragine finanziaria che vide, ancora nel 1618, i soli interessi sui mutui contratti oltrepassare i 70.000 ducati annui; nell’incapacità di tamponare l’indebitamento con momentanei espedienti quali i dazi sul pesce e sul riso e l’inasprimento tributario sulle proprietà immobiliari – il collasso s’approssimava talmente che Daniele Nys, già sollecito fornitore per le incontinenti brame collezionistiche di F., poté far balenare, come unica possibilità per tacitare i creditori e per otturare le falle d’una disastrosa situazione finanziaria, l’opportunità d’una vendita del patrimonio artistico accumulato dai Gonzaga. Per sua fortuna, morendo, ad appena trentanove anni, ché gli eccessi e la tensione nervosa stroncano un fisico già minato dai “più atroci mali”, il 29 ott. 1626, F. non fu costretto a subire di persona la svendita della galleria, già gloria dei Gonzaga, già eccezionale connotato della corte.

Sepolto F. nella basilica di S. Andrea, alla vedova senza prole non restò che – dopo il temporaneo ritiro nel monastero di S. Orsola dove, però, intrigò troppo perché il cognato Vincenzo non si irritasse – partire, il 19 giugno 1627, per Firenze. Quanto a Giacinto, il figlio di Camilla Faà e di F., beneficiato con un appannaggio allodiale, colla ricca prepositura di S. Benedetto di Polirone e colla pingue titolarità dell’abbazia di Lucedio, morrà di peste nel luglio del 1630, non senza corra voce l’avesse, invece, fatto avvelenare il di lui sospettoso Carlo Gonzaga Nevers. E, a detta dello storico locale settecentesco F. Amadei, qualche giorno prima, il 3, era morto, sempre di peste, tale “don Tiberio”, che Amadei assicura essere suo fratello, ché “figlio naturale del fu duca” Ferdinando.

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