Franco Nicolò
A cura di Pierluigi Piano,
liberamente tratto da F. Pignatti, voce Franco, Nicolò, in Dizionario Bibliografico degli Italiani, vol.50 (Francesco I Sforza – Gabbi), Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1998, pp.202 – 206.
Nicolò Franco nacque il 13 o il 14 settembre 1515 a Benevento da Giovanni, di umili origini. Sui suo studi poco ci è dato sapere forse dopo aver intrapreso studi giuridici, il Franco si dedicò alle lettere. Verso il 1535 si stabilì a Napoli, dove pubblicò epigrammi latini raccolti sotto il titolo di Hisabella (Napoli, Sultybach e M. Cancer). Isabella Di Capua principessa di Molfetta, moglie del vicerè di Sicilia Ferrante Gonzaga ne fu l’ispiratrice. A Napoli godette della protezione del concittadino Bartolomeo Camerario, docente di diritto feudale e dal 1529 presidente della Regia Camera, il quale lo introdusse negli ambienti letterari partenopei. Le speranze di una rapida affermazione dovettero tuttavia restare frustrate e a Napoli il Franco condusse per qualche anno una vita stentata. Un soggiorno a Roma, di cui parlano alcune fonti, non è documentato. Nel giugno 1536 era a Venezia, ospite dell’oratore del duca di Mantova Benedetto Agnelli, presentato pare addirittura da Tiziano. Nella città lagunare il Franco tentò di farsi luce cercando invano di ripubblicare l’Hisabella e delle stanze composte in occasione della sua partenza da Napoli, intitolate Peregrino o Peregrino riformato (oggi perdute). Alla disponibilità del tipografo Francesco Marcolini si deve l’edizione, nell’agosto 1536, del poemetto in ottave Il tempio di Amore (una stampa senza note tipografiche è forse anteriore di un anno), dedicato ad Argentina Rangone, moglie del conte Guido, feudatario della Romagna e residente a Venezia in qualità di oratore cesareo.
Dietro questa dedica è da vedere l’aspirazione del tipografo forlivese a conciliarsi la protezione dell’illustre personaggio e conferma questa ipotesi la lettera di dedica allo stesso Rangone, a nome dell’editore ma di pugno di Nicolò Franco, che precede la Musica in canto figurato, formata da francesi autori pubblicata dal Marcolini nel 1537: troppo poco tuttavia per concludere che lo scrittore fosse remunerato dall’impresa tipografica come collaboratore e correttore. Il tempio, come ha mostrato C. Siriani (Un plagio di Nicolò Franco), è un plagio effettuato dal Franco ai danni di un omonimo componimento di uno sconosciuto autore napoletano, tale Capanno, al secolo Iacopo Campanile, che fu pubblicato ad Alife l’11 giugno 1536, cioè lo stesso mese in cui il Franco giunse a Venezia. Evidentemente egli ne aveva portato con sé da Napoli una copia manoscritta e una volta giunto a Venezia pubblicò senza scrupoli l’operetta come cosa sua, limitandosi a sostituire i nomi delle gentildonne napoletane che vi erano celebrate con quelli di dame veneziane.
Grazie alla frequentazione del Marcolini e agli uffici del poeta Quinto Gherardo, il Franco entrò nella cerchia di Pietro Aretino, che nell’agosto 1537 lo accolse nella sua dimora sul Canal Grande e nutrì all’inizio per lui grande stima. Il giovane Franco contribuì alla composizione di opere dello scrittore, anche in virtù della buona conoscenza del latino, con cui l’Aretino non aveva dimestichezza. Per lui il Franco interpretò le opere dei padri della Chiesa e i testi liturgici che Pietro utilizzò per la composizione delle sue opere sacre composte tra il 1538 e il 1540 (la Genesi, la Vita di Maria Vergine, la Vita di s. Caterina) e con certezza ebbe parte cospicua nell’allestimento del primo libro delle Lettere. La rottura tra i due scrittori è posteriore all’agosto 1538. Diversamente da quanto volle far credere l’Aretino, la causa della lite non va ricercata nel carattere permaloso e insofferente del Franco, bensì nel volume di Pistole vulgari che questi, emulo e concorrente del maestro, aveva approntato nello stesso tempo in cui collaborava all’epistolario di Pietro. Il volume vide la luce solo nell’aprile 1539 e, a causa dell’ostracismo dettato dall’antico protettore nella libreria del Marcolini, a opera dello stampatore francese, attivo a Venezia, Antonio Gardane (che eseguì anche una seconda edizione lievemente rimaneggiata nel 1542). Le lettere raccolte vanno dal 10 settembre 1531 al 4 novembre 1538, ma la dedica al vescovo di Fréjus Leone Orsini in data luglio 1538 è sintomo che le ultime epistole furono redatte apposta per la pubblicazione.
Nel settembre e nell’ottobre 1539 uscirono altre due opere del Franco, destinate a maggiore fortuna delle Pistole, per le quali, a detta dell’Aretino, l’editore ebbe addirittura una remissione delle spese:i Dialoghi piacevoli (Venezia, Giovanni Giolito, 1539, ristampati da Gabriele Giolito nel 1541, 1545, 1554, 1559; in edizione purgata col titolo Dialoghi piacevolissimi da A. Salicato nel 1590 e da F. Giuliani e G. Cerutto nel 1593) e il dialogo intitolato Il petrarchista (uscito in ottobre presso Giovanni Giolito, poi per Gabriele Giolito nel 1541, 1543; nel 1623 per B. Barezzi con il titolo Li due petrarchisti), opere entrambe impegnate ad affermare nella vita culturale del momento un punto di vista di arcigno e battagliero moralista, calato in forme «piacevoli», ma non per questo meno graffianti e polemiche.
Nonostante il triplice exploit letterario che, come provano anche i privilegi decennali concessi dalla Serenissima Repubblica alle tre edizioni, aspirava a essere un’affermazione solida e duratura, la situazione del Franco a Venezia si deteriorò rapidamente e nel clima di guerra aperta che si scatenò con l’Aretino fu il Franco a pagare le conseguenze. A metà del 1539 fu ferito con una coltellata al viso da un «creato» di Pietro, il milanese Giovanni Ambrogio degli Eusebi, che poi ricevette dal padrone protezione e appoggio presso i tribunali. Il Franco comprese che la sua posizione si era fatta troppo rischiosa. Lasciò Venezia alla fine di giugno 1539 alla volta di Padova (dove fu probabilmente ospite di Sperone Speroni), con il progetto di riparare in Francia presso la corte di Francesco I. Passò quindi a Casale Monferrato, dove trovò una benevola accoglienza da parte del governatore della città Sigismondo Fanzino e dei letterati locali, che lo indusse ad accantonare i propositi di tentare la fortuna in terra di Francia. A Casale il Franco si trattenne per sette anni fino al 1546. Al riparo delle protezioni conseguite nella piccola ma vivace società casalese poté dare sfogo al risentimento verso l’odiato rivale dando alle stampe le Rime contro Pietro Aretino e la Priapea, raccolta di sonetti satirici e lussuriosi, usciti nella seconda metà del 1541 con l’indicazione di Torino per i tipi dello stampatore Giovanni Antonio Guidone, che teneva officina anche a Casale.
Le Rime e la Priapea non ci sono giunte nell’editio princeps e neppure in una ristampa pare eseguita a Mantova nel 1546, bensì nella terza edizione molto accresciuta curata dall’autore per i tipi di M. Gringo a Basilea nel 1548. La Priapea fu probabilmente ispirata al Franco dalla pubblicazione nel 1534 della collettanea aldina Diversorum veterum poetarum in Priapum lusus insieme con l’Appendix virgiliana e con i Priapea pseudovirgiliani. Al commento di questi ultimi il Franco si applicò sin dagli anni veneziani, proseguendo nel ventennio successivo fin quando l’opera non gli venne sequestrata e distrutta durante la prima carcerazione subita a Roma nel 1558 – 59. Rispetto alle Rime, nella Priapea maggiore intensità registrano gli accenti anticlericali e sono riprese e accentuate le invettive già diffuse nelle Rime contro principi e potenti (la raccolta si conclude con una lettera «A gli infami principi del infame suo secolo»), coliti nelle loro laidezze private. È per questo che la Priapea, più delle Rime, ebbe un impatto cospicuo sull’opinione pubblica e sui potenti, connotando in maniera decisiva l’immagine pubblica del Franco come un letterato maledico e immorale anche per il futuro, quando si sarebbe orientato verso generi seri.
Accanto a questa iniziativa scandalosa con la quale egli pagava il tributo all’identità che egli stesso si era voluto costruire, il Franco fu sollecito a dare fuori un prodotto più tradizionale e integrato, rivolto propriamente al pubblico casalese. In sorprendente simultaneità con la Priapea concepì con tutt’altro spirito il Dialogo dove si ragiona delle bellezze, nel quale celebra le donne di Casale e attribuisce loro ogni pregio (in contemporanea alla stampa casalese per il Guidone del 1542, il libro uscì a Venezia per A. Gardane). Inoltre le chiare lodi rivolte nel libretto ad Alfonso d’Avalos, governatore di Milano, e alla di lui consorte Maria d’Aragona, e per tramite loro a Carlo V, fanno intendere l’intento di cercare in quella direzione nuovi e più augusti protettori, come confermano numerose lettere dell’epistolario inedito [rectius: in corso di stampa] nel ms. Vat. Lat. 5642 della Biblioteca Vaticana. Con questa diverse venature la presenza del Franco a Casale fu radicata nella realtà cittadina e circondata da debita considerazione. Fondò e presiedette col nome di Clonato l’Accademia degli Argonauti, alla quale si affiliò il fior fiore dei letterati del posto, nonché personalità provenienti dai domini gonzagheschi e da altri Stati. Degli anni casalesi sono le edizioni, curate dal Franco della commedia Li sei contenti ( Casale, G. A. Guidone, 1542) e della tragedia Sophonisba (Venezia, G. Giolito, 1546) di Galeotto Del Carretto.
In questi anni casalesi cadono anche i primi approcci concreti per una sistemazione cortigiana. Nel 1543 da Milano il duca Ferrandina Antonio Castriota tentò con insistenza di assumerlo al suo servizio, ma il Franco respinse le profferte. Si legò invece, pur restando a Casale, a Giovanni Cantelmo conte di Popoli. Tra la fine del 1545 e l’inizio del 1546 data l’improvvisa partenza per Mantova, dove si trovava nel gennaio 1546. Dall’epistolario della Vaticana sembra di ricavare che il brusco epilogo del soggiorno fosse dovuto a una condanna inflittagli per aver reagito a un’offesa. Il cenacolo degli Argonauti non ebbe fine con la sua partenza da Casale. A Mantova fece stampare sotto il suo controllo per i tipi di I. Ruffinelli i Dialoghi marittimi dell’accademico Giovan Jacopo Bottazzo, con un’appendice di rime proprie (59 sonetti) e degli altri Argonauti. Del Franco avrebbero dovuto vedere la luce sempre per il Ruffinelli anche un dialogo sui Pesci, uno sulla Fortuna, un Centonovelle, Quattro libri di lettere, il Duello, le Prediche. A una Volgare historia in dieci libri si trovano accenni sparsi nelle lettere; e nell’epistola A gli infami principi in calce alla Priapea è annunciata come completa e di prossima pubblicazione con dedica ad Alfonso d’Avalos. Ma per tutti questi titoli è difficile distinguere se si tratti di progetti concreti e già in corso d’opera o di semplici petizioni ostentate per vanteria. A Mantova fu invece pubblicata la Philena (I: Ruffinelli,1547) con una pomposa dedica al conte di Popoli.
Si tratta di un lungo romanzo psicologico nel quale il Franco narra la rigenerazione morale dell’uomo che si emancipa dalla servitù delle passioni per dedicarsi alla contemplazione esclusiva di Dio. La vicenda offre pochi appigli documentari, presentandosi come una miscela nel complesso sconnessa e farraginosa di stati d’animo ed effusioni sentimentali priva di una vera e propria trama e cementata più che altro dal tono artatamente oratorio della prosa, farcita di memorie dantesche.
Il soggiorno mantovano si concluse nel 1548 con il viaggio a Basilea per la stampa della terza edizione della Priapea. La scelta di uno stampatore in una città riformata sarà stata verosimilmente motivata dall’audacia del contenuto del libretto, che in questa edizione, con l’aggiunta delle rime anticlericali e contro i Farnese, rifletteva in parte l’orientamento antifarnesiano assunto dai Gonzaga. Dopo il rientro da Basilea, gli spostamenti del Franco si fanno più frequenti, ma su questo periodo della sua vita le informazioni sono incerte e il quadro complessivo che ne emerge poco chiaro. Al seguito di Giovanni Cantelmo viaggiò tra la Campania, gli Abruzzi, la Toscana. Nel 1551 lo seguì in Calabria pare con l’incarico di segretario. A Cosenza animò con i letterati locali un’accademia e compì forse un viaggio in Sicilia. Già nel 1552 però il Cantelmo, forse per difficoltà finanziarie, licenziò il Franco, che verso la metà di aprile fu costretto a ritornare a Napoli, dove trovò un nuovo padrone nel principe di Bisignano Pietro Antonio Sanseverino. In questo periodo cade il ritorno alla composizione latina con quattro endecasillabi (anteriori al novembre 1552, due soli ci sono giunti), lo studio della Poetica di Aristotele e la raccolta delle poesie edite e inedite di Francesco Maria Molza, offerte in dono a Giovan Iacopo Carafa al principio del 1555. Nel frattempo era però terminata anche la remunerazione del Sanseverino, perché il principe aveva lasciato Napoli per partecipare alla guerra di Siena; il Franco non percepì più lo stipendio e visse per suo conto in misere condizioni.
L’elezione al soglio pontificio nel giugno del 1555 di Gian Pietro Carafa, Paolo IV, riaccese la sue speranze; al Franco sembrò di poter contare sull’appoggio di due nipoti del papa, Giovan Iacopo Carafa e il Cantelmo, affinché gli fosse levato l’interdetto dallo Stato della Chiesa comminatogli da Poaolo III. Ma le lettere di preghiera indirizzate al Carafa, al Cantelmo e all’altro nipote del papa, il potentissimo cardinale Carlo Carafa, non sortirono alcun effetto. Senza esito fu anche un suo viaggio a Roma nell’agosto 1555. A Roma regnava nei suoi confronti un clima di diffidenza e di sospetto per le lubriche invettive anticlericali della Priapea, sulle quali l’inflessibile Paolo IV non intendeva transigere (nel 1559 la Priapea con le Rime contro Pietro Aretino furono messe all’Indice). Nel 1556, in occasione della morte del fratello Vincenzo, il Franco soggiornò per un periodo a Benevento e in questa occasione compose i capitoli satirici Del sei, Del sette, Dell’otto contro alcune magistrature cittadine e il capitolo Sull’uso della berretta contro gli adulatori. Verso la fine di giugno 1558, dopo che la pace tra il papa e gli Spagnoli aveva reso la situazione più tranquilla, osò recarsi a Roma per perorare di persona le sue ragioni, ma poco dopo il suo arrivo, la sera del 15 luglio, fu arrestato, apparentemente senza un valido motivo, in casa di Bartolomeo Camerario, allora commissario generale per l’Annona, che fu tratto anch’egli in arresto per malversazione. Il Franco rimase in prigione per otto mesi, cinque dei quali trascorsi nel carcere dell’Inquisizione a Ripetta. Riottenne la libertà il 6 febbraio 1559 e, grazie all’intervento del duca di Paliano Giovanni Carafa, gli furono restituite le carte sequestrate. Verso la fine del 1560, il Franco si trasferì presso il cardinale Giovanni Morone, con il quale visse fino al gennaio 1568, senza tuttavia entrare nelle simpatie del prelato. Questo servizio non creò a Nicolò Franco grandi opportunità: di una traduzione di Omero parlò occasionalmente con Paolo Manuzio, che frequentava la casa del Morone; una tragedia o commedia Dell’onore, nella quale erano rivolte molte critiche ai principi contemporanei, fu mostrata ad alcuni amici. Erronea è la notizia secondo la quale a Roma avrebbe vestito l’abito sacerdotale, e inverosimile è pure che l’indole satirica e maledica dello scrittore si sia esplicata da subito con pervicacia nell’ambiente romano, condizionato dalle velenose rivalità tra i vari partiti curiali. Il Franco giungeva preceduto da una fama rischiosa di autore di pasquinate, ma non ci sono prove al di là delle induzioni dei biografi, né era nel suo interesse che andasse già allora a ingrossare le fila dei gazzettieri e menanti.
Ciò avvenne solo dopo la morte del severo Paolo IV e la disgrazia dei suoi potenti nipoti, che avevano retto lo Stato della Chiesa in vece del pontefice. Nicolò Franco ottenne le carte del processo fatto celebrare da Pio IV contro i nipoti del Carafa dal vescovo Alessandro Pallantieri, procuratore fiscale, affinché vi attingesse materiale per comporre un violento libello anticarafesco, il cui titolo completo fu Commento sopra la vita et costumi di Giovan Pietro Carafa che fu Paolo IV chiamato, et sopra le qualità de tutti i suoi et di coloro che con lui governaro il pontificato.
L’opera si componeva di una parte in prosa composta interamente dal Franco, che si valse propriamente degli atti del processo; e di una parte in versi contenente le rime di un gran numero di autori che avevano scritto contro Paolo IV e la sua famiglia anche prima del processo (l’elenco parziale in Mercati, I costituti, pp. 93 s.), compresi una ventina di sonetti del Franco. Del ponderoso volume si conserva un cospicuo frammento nel cod. Ottob. Lat. 2684 della Biblioteca apostolica Vaticana (cc. 347r – 570v) in forma di dialogo tra Pasquino e Martorio che si raccontano le malefatte del cardinale Carlo Carafa.
La situazione relativamente tranquilla di cui godette il Franco a Roma mutò all’improvviso nel 1556 con l’elezione al soglio pontificio dell’inflessibile Pio V. Il Ghislieri intraprese una politica di rigida moralizzazione di cui fecero subito le spese gazzettieri e menati. Il processo ai Carafa fu sottoposto a revisione. La sentenza di assoluzione rese scontata la vendetta contro il Franco, che fu arrestato e messo a disposizione degli inquisitori il 1° settembre 1568. Il Pallantieri rese la sua prima testimonianza il 17 settembre, assumendo un atteggiamento reticente al di là di ogni credibilità nei confronti delle dichiarazioni circostanziate del Franco e degli altri testimoni. Tutta la sua strategia difensiva riguardo al libello anticarafiano fu in seguito impostata sulla smentita delle affermazioni del Franco, che tentò di far passare per un personaggio losco e corrotto, alle cui diffamazioni non bisognava prestare fede. Non fu creduto e, inasprita la disposizione del tribunale con una condotta sprezzante e cavillosa, fu giudicato colpevole e condannato a morte. Nel corso del processo il Franco, di fronte all’evidenza delle prove, riconobbe la gravità dei suoi attacchi al pontefice e li giustificò con la delusione e le ingiustizie patite ad opera dei Carafa, ma fu sempre reciso nel respingere le accuse di avere attaccato il Papato come istituzione, così come resistette ai tentativi degli inquisitori di coinvolgere nella vicenda il cardinale Morone. Nell’insieme egli seppe tenere testa alle accuse di testimoni dubbi o interessati. Ciò non gli valse una condanna più mite e la pena capitale parve anche ai contemporanei una punizione sproporzionata.
Il processo terminò il 27 febbraio 1570 e l’esecuzione ebbe luogo la mattina dell’11 marzo: dopo avere ascoltato messa, essersi confessato e comunicato nelle carceri di Tordinona, il Franco fu impiccato sul ponte di Castel S. Angelo.
Una bibliografia delle opere edite del Franco è pubblicata dal Grendler (pp. 215 – 221), mentre una ricostruzione anche delle opere perdute o solo abbozzate si deve a R.L.Bruni, Per una bibliografia delle opere di Nicolò Franco, in Studi e problemi di critica testuale, XV (1977), pp. 84 – 103. In edizioni critiche si leggono le Rime contro Pietro Aretino e la Priapea (a cura di E. Sicari, Lanciano 1916), il Petrarchismo (a cura di R. L. Bruni, Exeter 1979). Dei Dialoghi piacevolissimi esiste un’edizione moderna a cura di G. Sborselli (Lanciano 1925) che segue quella purgata del 1590. A F. R. De Angelis si deve una anastatica dell’edizione Gardane 1542 delle Pistole vulgari (Bologna 1986). Una Lettera a Dante è edita in A. Vallone, Percorsi danteschi, Firenze 1991, pp. 95 – 108; i frammenti della versione in ottave dell’Iliade da D. Ciampoli: L’Iliade di Omero tradotta da Nicolò Franco, in Roma letteraria, X (1902), pp. 62 – 66, 80 – 87, 131 – 137, 159 s., 177 – 180, 227 – 230. Inedito, nonostante gli studi preliminari intrapresi da R. L. Bruni e F. R. De Angelis, resta il prezioso copialettere autografo (Bibl. Apost. Vaticana, Vat. Lat. 5642), contenente oltre ottocento lettere del Franco e dei corrispondenti dal giugno 1540 al luglio 1559.
Fonti e Bibliografia:
Per le lettere dell’Aretino si vedano le seguenti edizioni: Lettere scritte al signor Pietro aretino da molti signori, comunità, donne di valore, poeti et altri eccellentissimi spiriti, Venezia 1552, pp. 372 – 376; P. Aretino, Il primo libro delle lettere, a cura di F. Nicolini, Bari 1913, pp. 410 – 430 e ad Indicem; Id., Il secondo libro delle lettere, a cura di F. Nicolini, ibid. 1916, ad Indice; A. Mercati, I costituti di Nicolò Franco (1568 – 1570) dinanzi l’Inquisizione esistenti nell’Archivio segreto Vaticano, Città del Vaticano 1955, pp. 93 ss.; M. Firpo – D. Marcatto, Il processo inquisitoriale al cardinale Giovanni Morone, Roma 1918 – 87, ad Indices; E. Sicari, L’anno di nascita di Nicolò Franco, in Giornale storico della letteratura italiana, XXIV (1894), pp. 398 – 404; C. Siriani, La vita e le opere di Nicolò Franco, Torino – Roma 1894; Id. Ancora sull’anno di nascita di Nicolò Franco, in Giornale storico della letteratura italiana, XXV (1895), pp. 170 – 172; Id., Due componimenti inediti di Nicolò Franco, in Giornale storico della letteratura italiana, XXX (1897), pp. 264 – 270; A. Luzio, L’Aretino e il Franco, in Giornale storico della letteratura italiana,XXIX (1897), pp. 229 – 283; C. Siriani, Un plagio di Nicolò Franco, in Rassegna critica della letteratura italiana, V (1900), pp. 19 – 26; P. P. Parrella, Le «Pistole volgari» di Nicolò Franco e il libro delle «Lettere»dell’Aretino, in Rassegna critica della letteratura italiana, V (1900), pp. 97 – 122; D. Gnoli, Del supplizio di Nicolò Franco, in Raccolta di studi critici dedicata ad Alessandro D’Ancona, Firenze 1901, pp. 542 – 552; G. De Michele, Un bizzarro ammiratore di Dante nel Cinquecento, in Rassegna critica della letteratura italiana, XIII (1912), pp. 12 – 25; Id., Nicolò Franco Biografia con documenti inediti, in Studi di letteratura italiana, XI (1915), pp. 60 – 154; Id., La «Filena» di Nicolò Franco, in Rassegna critica della letteratura italiana, XXX (1925), pp. 8 – 28; A. Altamura, Fabrizio Luna e due invettive inedite di Nicolò Franco, in Samnium, XXIII (1950), pp. 100 – 1005; D. M. Schullina, Nicolò Franco vilifier of medicine, in Bulletin of the History of medicine, XXIV (1950), pp. 26 – 37; B. Croce, Quel che si racconta di Nicolò Franco nella sua patria Benevento, in Aneddoti di varia letteratura, I, Bari 1953, pp. 398 s.; N. Badaloni, Natura e società in Nicolò Franco, in Società, XVI (1960), pp. 734 – 777; A. Zazo, Un corrispondente di Nicolò Franco: Giulio Antonio Acquaviva duca d’Atri, in Samnium, XXXVI (1964), pp. 113 – 121; P. F. Grendler, Critics of the Italian world, Madison-Milwaukee-London 1969, pp. 38 – 49, 215 – 221; R.L. Bruni, Polemiche cinquecentesche. Franco, Aretino, Domenichi, in Italian Studies, XXXII (1977), pp. 52 – 67; F. R. De Angelis, «Il Petrarchista» di Nicolò Franco, in FM Annali dell’Istituto di filologia moderna dell’Università di Roma, I (1977), pp. 41 – 60; R. L. Bruni, Ancora sugli «Hendecasyllabi»di Nicolò Franco, in Samnium, LI (1978), pp. 36 – 43; F. R. De Angelis, Epistolario di Nicolò Franco Codice Vaticano latino 5642, in FM Annali dell’Istituto di filologia moderna dell’Università di Roma, II (1979), pp. 81 – 113; S. Martelli, Nicolò Franco: intellettuali, letteratura e società, in P. A. De Lisio – S. Martelli, Dal progetto al rifiuto. Indagini e verifiche sulla cultura del Rinascimento meridionale, Salerno 1979, pp. 127 – 179; R. L. Bruni, Parodia e plagio nel «Petrarchista» di Nicolò Franco, in Studi e problemi di critica testuale, XX (1980), pp. 61 – 83; C. Cairns, Nicolò Franco, l’umanesimo meridionale e la nascita dell’epistolario in volgare, in Cultura meridionale e letteratura italiana. I Modelli narrativi dell’età moderna, Napoli 1985, pp. 119 – 128; U. Rozzo, Erasmo espurgato dai «Dialoghi piacevoli»di Nicolò Franco, in Erasmo, Venezia e la cultura padana nel Cinquecento, a cura di A. Olivieri, Rovigo 1995, pp. 191 – 208; Iter Italicum, I, II, IV, ad Indices.
Cfr. inoltre A.Capata, Nicolò Franco e il plagio del Tempio d’amore, disponibile sul sito www.disp.let.uniroma1.it, e la Bibliografia aggiornata al 17 giugno 2006, curata da F. Pignatti, sul sito www.nuovorinascimento.org .