Gattinara Mercurino Arborio
G. Brunelli, in Dizionario biografico degli italiani, Roma IEI, www.treccani.it
Nacque molto probabilmente a Gattinara, da Paolo e da Felicita Ranzo, il 10 giugno 1465. Apparteneva a una nobile famiglia di origine feudale, i cui membri, coltivando le professioni giuridiche, nel corso del XV secolo si erano inseriti ai più alti livelli della vita sociale del borgo franco di Gattinara e della vicina Vercelli.
Il padre del G., giurisperito di poco successo, aveva sposato la figlia di Mercurino Ranzo (docente nella facoltà di diritto dello Studio torinese e presidente del Consiglio di Savoia prima e del Piemonte poi), ma, morto nel 1479, aveva lasciato una prole numerosa e un patrimonio esiguo. Il G., primogenito, rese ancor più difficile la situazione, promettendo di sposare, ancora adolescente, Andreeta Avogadro, nobile vercellese, orfana, accolta in casa dalla madre Felicita. Per contrastare questa decisione, il G. fu inviato a Vercelli dapprima presso Pietro Arborio di Gattinara, un notaio cugino del padre; quindi, dopo circa tre anni, presso lo zio materno Bartolomeo Ranzo, giudice nella stessa città, che il G. seguì anche quando passò alla magistratura di Cassine (presso Acqui).
Fu per il G., fino a quel momento fermo ai primi rudimenti delle lettere, l’inizio di un decisivo percorso formativo: riprese gli studi umanistici, dedicandosi con fervore soprattutto alle Institutiones di Giustiniano e ai commenti al Digesto. Seguì, nell’anno accademico 1488-89, l’iscrizione alla facoltà di diritto dello Studio di Torino, città dove alcuni membri della famiglia, come il giudice Giovanni Arborio, intrattenevano contatti con la corte sabauda. Qui il G. si distinse per una precoce pratica forense, che gli permise altresì, grazie ai privilegi connessi alla sua qualifica di legum studens, di recuperare in causa beni della famiglia sua e di Andreeta, sposata nel 1490.
Il G. aveva già una discreta esperienza, quando, intorno alla fine del secolo, patrocinando con successo Maddalena di Bretagna in una spinosa causa contro Luigia di Savoia (figlia di primo letto del defunto marito di Maddalena, Giano di Savoia), attirò l’attenzione del duca Filiberto II di Savoia, che gli offrì un impiego. Dapprima esitante, il G., dopo il matrimonio tra Filiberto e Margherita d’Asburgo, figlia dell’imperatore Massimiliano I, accettò, nel 1502, di entrare al servizio della duchessa come giudice di Villars (contea donatale da Filiberto) e nel 1503 come giudice di Gourdans. Per il duca ricoprì invece le funzioni di avvocato fiscale pro tempore.
Una decisa opzione a favore del servizio della potente casa d’Austria si palesò alla morte di Filiberto: ottenuto il congedo dal successore, il filofrancese Carlo II, il G. rimase al servizio di Margherita, da lui difesa, proprio contro il nuovo duca, in una causa su materie d’eredità (1504). Nel contempo, negli Stati di Margherita ricopriva i primi rilevanti incarichi di governo, come quello di advocatus fisci e, in un secondo momento, di presidente del Parlamento di Bresse. In questa veste, il G. attese alla riforma degli organismi giudiziari nelle regioni del Vaud e del Faucigny. Nel 1506, accettò inoltre la cattedra di professore aggiunto di diritto civile, presso l’Ateneo di Dôle, in Borgogna. Il G. appariva inserito ormai nella corte della figlia dell’imperatore, presso la quale si trasferì con la moglie e la sua unica nata, Elisa.
Fu proprio il ruolo politico assunto da Margherita nello scorcio del primo decennio del Cinquecento a costituire la svolta nella carriera del Gattinara. Infatti, dopo la morte di Filippo d’Asburgo (25 sett. 1506), signore di Borgogna e dei Paesi Bassi, Massimiliano aveva affidato alla figlia la tutela dei nipoti, tra cui il futuro imperatore Carlo, e il governo delle Fiandre. Tuttavia, poiché i termini del mandato di reggenza tardavano a essere definiti, il G., insieme a Sigismond Plough e Gilles Van der Damme, fu incaricato, nell’agosto 1507, di una legazione in Germania: dopo molti incontri con Massimiliano a metà marzo 1508 si giunse a un accordo, steso dal G., che specificava e garantiva i poteri di Margherita.
Guadagnata in questa occasione la stima dell’imperatore, il G. cercò di consolidare la propria posizione, chiedendo la nomina a presidente del Parlamento di Borgogna, incarico che giudicava di prestigio e non troppo oneroso. Massimiliano parve dapprima esitare, prevedendo i malumori che sarebbero sorti nella nobiltà locale; poi, per le pressioni di Margherita, acconsentì. Il G. non poté tuttavia insediarsi, per i nuovi impegni diplomatici: l’imperatore, infatti, lo aveva incluso nella delegazione capeggiata dalla reggente dei Paesi Bassi che, verso la fine del 1508, doveva avviare le trattative con i Francesi per una potente lega contro la Repubblica di Venezia, conclusa poi a Cambrai il 10 dic. 1508. Anche in questa occasione, il G. si dimostrò particolarmente abile nella stesura degli accordi, attività nella quale fondeva una ormai matura sapienza giuridica e un fine intuito politico-diplomatico.
Dopo una nuova missione in Francia a nome di Massimiliano e Margherita per curare l’esecuzione dei patti e per rendere a Luigi XII l’omaggio feudale dovuto per la contea di Borgogna, nell’aprile 1509 il G. passò a Dôle per l’inaugurazione del Parlamento di Borgogna. Il suo programma, concordato con la reggente dei Paesi Bassi, prevedeva notevoli innovazioni, destinate a suscitare profonde ostilità: una riforma dell’amministrazione, con la redazione di un codice (che vide la luce solo nel 1515); una revisione dei criteri di composizione del Parlamento, che escludeva la presenza di consanguinei; un atteggiamento deciso verso i nobili più turbolenti e riottosi al dominio asburgico.
Dopo solo pochi giorni, il G. dovette passare in Italia, dove si occupò dapprima, nella veste di emissario di Carlo di Savoia, del suo ingresso nella Lega di Cambrai; quindi, come rappresentante imperiale, all’inizio di maggio del 1509, incontrò a Milano il re di Francia Luigi XII, cui riferì l’insoddisfazione di Massimiliano per la stasi delle operazioni di guerra contro Venezia. Invece, proprio mentre il G. seguiva l’esercito francese, la campagna entrò nel vivo e i Veneziani furono pesantemente sconfitti ad Agnadello (14 maggio 1509).
Era Massimiliano ad apparire ora irresoluto e debole: a nulla valsero le missioni del G. a Mantova e Ferrara in cerca di sussidi per la guerra; né maggior successo ebbe il suo tentativo di distogliere Luigi XII dal passare il Mincio e occupare il territorio che secondo i patti spettava all’imperatore (maggio-giugno 1509).
Del resto, la condotta della guerra da parte imperiale incontrava vistosi fallimenti: l’assedio di Padova, tra settembre e ottobre 1509, si concluse infatti con uno scacco che colpì profondamente tanto la dedizione del G. alla dinastia, quanto il suo personale senso dell’onore.
Lasciata l’Italia, il G. tornò a incarichi di maggiore respiro: la Castiglia, infatti, dopo la morte di Filippo d’Austria e l’aggravarsi della malattia della regina Giovanna, versava in una situazione di profonda incertezza politica, mentre i due sovrani padri degli sfortunati coniugi, Massimiliano I e Ferdinando d’Aragona, se ne contendevano la reggenza. La soluzione della controversia, per parte imperiale, fu pertanto affidata al G., insieme ad André de Burgo. I due diplomatici si recarono a Blois presso Luigi XII, offertosi come mediatore e, dopo forti difficoltà iniziali, nel dicembre 1509 conclusero un accordo, che assegnava il governo a Ferdinando il Cattolico solo fino al compimento della maggiore età del nipote comune, Carlo, che lo avrebbe assunto lasciando alla madre Giovanna il titolo regio. Si trattava di un risultato di grande importanza: temporaneamente allontanata dalla penisola iberica, la casa d’Austria poneva infatti le basi per il successivo dominio di Carlo sui Reami spagnoli, conservava la sua tutela e riceveva copiosi sussidi finanziari.
Per ratificare questi accordi e sollecitare aiuti militari aragonesi per la campagna ancora in atto contro Venezia, il G. fu inviato in Spagna nell’aprile 1510. Prima di partire, però, egli manifestò l’intenzione di acquistare un feudo in Borgogna, affermando di discendere da un casato di quella regione (gli Arbois), con un’enfasi che indicava il desiderio di una nuova legittimazione nobiliare e di un più stretto legame con la casa d’Austria. Giunto in Spagna nel luglio 1510, insieme con Giovanni Scath, il G. incontrò più volte Ferdinando d’Aragona a Monzón e a Madrid, rimanendo alla sua corte anche dopo la ratifica dell’accordo sul governo della Castiglia. Solo nell’aprile del 1511, ormai esaurite le sue sostanze, privo del sostegno finanziario necessario ai suoi compiti diplomatici e di rappresentanza, lasciò la penisola iberica.
Sulla scorta di questa lunga esperienza, il G. informò Massimiliano I e Margherita sulla personalità del re aragonese, offrendo non solo suggerimenti sulla condotta da tenere per averlo alleato, ma anche piani per sottrarre al suo controllo la Castiglia. Come consigliere politico il G. vantava ormai un discreto credito: la reggente Margherita pensò addirittura di affidargli la guida del suo Consiglio in sostituzione del potente cancelliere Jean Le Sauvage. Tuttavia, l’opposizione subito manifestata dai grandi signori fiamminghi, che costituivano il principale referente politico degli Asburgo nei Paesi Bassi, la costrinsero ad abbandonare l’idea.
Una resistenza altrettanto forte il G. trovò nell’esercizio delle funzioni di presidente del Parlamento di Borgogna, che riprese nell’ottobre 1511. Con una condotta durissima verso la nobiltà, egli si attirò l’aperta inimicizia dei signori della Franca Contea, capeggiati da Guglielmo di Virgy, governatore militare della regione. In un crescendo di ostilità, il G. dovette fronteggiare scorrerie di bande armate, rivolte, attentati alla sua persona. Anche il progetto di trovare dimora nella regione fallì: acquistata nel novembre del 1511 la signoria di Chévigny, egli fu ben presto trascinato in giudizio da alcuni parenti del venditore che, facendo valere un antico droit de proximité, intendevano rientrarne in possesso.
La crisi divenne insanabile nel 1514: il G., esacerbato dalle prime sentenze sfavorevoli sul possesso di Chévigny, esortò più volte Margherita a reprimere con la forza l’opposizione della nobiltà. Nel contempo, il fronte eretto contro i suoi tentativi di accentramento del governo e di riforma della giustizia trovò ascolto negli stessi sovrani, soprattutto in Massimiliano che, per mantenere il consenso, riteneva prudente sopire i dissapori tra la dinastia e i centri di potere locali. Così, solo con qualche difficoltà il G., che nel settembre del 1514 si trovava a Innsbruck presso l’imperatore, riuscì a difendere il proprio operato. Né il ritorno all’attività diplomatica poteva offrirgli ragioni di soddisfazione: entrato nella delegazione recatasi, all’inizio del 1515, in Francia per aprire cordiali relazioni con il nuovo re Francesco I, e per trattare il matrimonio di una figlia di questo con Carlo d’Asburgo, il G. si trovò relegato a un ruolo secondario, a causa della sua posizione personale spiccatamente antifrancese, e della mancanza di adeguati mezzi finanziari per sostenere le enormi spese di rappresentanza.
Con il ritorno nei Paesi Bassi iniziò la stagione più difficile della carriera del G.: la stima di cui godeva presso Massimiliano, con il quale si incontrò più volte nella primavera del 1515 per riferire sulla conferenza appena conclusa in Francia, non impedì il deterioramento della sua posizione, minata dai mutamenti al vertice dei paesi dell’eredità borgognona, dove, raggiunta Carlo d’Asburgo la maggiore età, era salito al potere il suo grand chambellan Guillaume de Croy, signore di Chièvres, fautore di una politica che, per salvaguardare gli interessi fiamminghi, privilegiava l’amicizia con la Francia. Così, divenuto il caso del possesso di Chévigny manifestamente politico, il G., dopo ripetute sentenze sfavorevoli (compresa quella del massimo organo giudiziario, il Grand Conseil di Malines), fu costretto a restituire il feudo (ottobre 1516). Né riuscì a imporre le sue ragioni a Margherita, cui presentò un dotto memoriale: la reggente assecondò il gruppo di pressione fiammingo-borgognone.
Vanificato ogni tentativo di inserirsi nella nobiltà della Franca Contea, il G. chiese licenza per recarsi al Santo Sepolcro, in adempimento di un voto; ma ottenne solo, grazie anche all’intervento di Leone X, di condurre un semestre di vita monacale e si ritirò, tra la seconda metà del 1517 e la prima del 1518, nella certosa di Scheut, presso Bruxelles.
Fu una stagione di meditazione e di studio concentrato su testi profetici, di cui il G., come molti contemporanei, subiva profondamente il fascino: rimangono tracce manoscritte di commenti a opere escatologiche e di vaticini da lui composti. Nel contempo, però, i suoi avversari avevano libero campo e, confermata la sentenza su Chévigny (13 ott. 1517), dove rimanevano le spoglie della defunta Andreeta, gli giunse anche la notizia della sua destituzione dalla carica di presidente del Parlamento di Borgogna, che Margherita l’aveva a lungo, inutilmente, sollecitato a rimettere (febbraio 1518). Lasciata la certosa di Scheut, il G. si recò presso la reggente, deciso a ottenere licenza; ebbe così 6000 scudi di ricompensa per i servigi prestati e, dopo aver incontrato Massimiliano ad Augusta, in occasione della Dieta convocata per eleggere il re dei Romani (luglio 1518), iniziò trattative per entrare al servizio del duca Carlo di Savoia.
Il quadro doveva però radicalmente mutare. Succeduto nel gennaio 1516 a Ferdinando il Cattolico, Carlo d’Asburgo si era trasferito in Spagna nel settembre 1517, accompagnato dal suo entourage fiammingo-borgognone, saldamente al governo. Per mitigarne il potere, Massimiliano e Margherita d’Asburgo, insieme a Laurent de Gorrevod, influente membro savoiardo della corte del re, procurarono che al cancelliere Jean Le Sauvage, morto il 7 giugno 1518, succedesse il G., di provata fedeltà alla dinastia.
Così, a Saragozza, il 15 ott. 1518, il G. assunse l’incarico di gran cancelliere dei Regni e dei domini di Carlo. Primo suo compito era sigillare gli atti regi, per garantirne la validità formale, con la facoltà di rigettare quelli che ritenesse viziati. Dirigeva inoltre l’apparato giudiziario, presiedeva i Consigli, controllava il lavoro dei segretari. Nel disbrigo di queste mansioni, il G. poteva vantare, oltre alla sua cultura giuridica, la vitale conoscenza di tutte le lingue parlate a corte. Infine, gli erano affidati i colloqui con privati e rappresentanti diplomatici, che subito notarono l’introduzione di un nuovo metodo di negoziare, fondato su un rigoroso esame in scriptis delle ragioni giuridiche delle parti.
Più difficile era trovare spazi di autonoma azione politica: con lo Chièvres il G. dovette subito collaborare, pur non condividendone la politica, partecipando agli infruttuosi colloqui con una delegazione francese a Montpellier nel maggio 1519. Nel corso dello stesso anno, si presentò tuttavia al G. l’occasione di emergere, allorché, morto Massimiliano I, si aprì la contesa per la corona imperiale tra Carlo, cui era destinata, e Francesco I.
Tra oggettive difficoltà ed esitazioni della corte, il G., considerando rovinosa l’unione tra il re di Francia (padrone di Milano e di Genova) e i principi tedeschi, seppe invece sostenere e stimolare la determinazione del giovane sovrano, fino alla sua elezione, il 28 giugno 1519. Il più ampio orizzonte dischiuso dalla dignità imperiale si confaceva alla sensibilità intellettuale del G., giurista formato sui testi di Giustiniano: così, con una notevole innovazione in una corte avvezza a forme piuttosto grezze di elaborazione politica, sottopose al neoeletto imperatore un lungo scritto programmatico.
Con tono ispirato il G. indicava come obiettivi a Carlo V, che riteneva il più potente imperatore dai tempi di Carlo Magno, la difesa della fede cattolica e della S. Sede e il conseguimento di quella pace universale che solo l’istituzione imperiale poteva garantire. Per affrontare questi compiti che, almeno implicitamente, comportavano la ripresa del confronto militare con la Francia, il G., consapevole del carattere composito dei domini di Carlo V, proponeva un complesso di riforme concernenti il reclutamento dei funzionari, l’amministrazione della giustizia, la fiscalità, il bilancio, l’organizzazione burocratica per il disbrigo degli affari correnti, la formazione di Consigli permanenti sulle materie di Stato.
Al momento, però, questi suggerimenti rimasero sulla carta, offuscati dalla linea politica dell’entourage fiammingo, incurante degli interessi spagnoli e accondiscendente con la Francia al punto di disinteressarsi dello scacchiere italiano. In questo contesto, il G. tentò anzitutto di allacciare un dialogo con le élites dei Regni di Spagna, chiamate a finanziare la nuova politica imperiale di Carlo V, senza però assumere responsabilità di governo: nel febbraio del 1520, avviata la riforma amministrativa dell’Aragona, si recò a Santiago, adoperandosi, insieme al vescovo Pedro Ruiz de la Mota, affinché le Cortes di Castiglia, massimo organo di rappresentanza del Regno, concedessero i sussidi finanziari necessari a Carlo V, in procinto di recarsi nei Paesi Bassi e in Germania. Grazie alla sua azione, furono approvate nuove imposizioni, ma il malcontento, ben noto al G., crebbe fino a sfociare nell’aperta rivolta dei Comuneros, non appena Carlo V lasciò la Spagna.
I sintomi della debolezza interna della monarchia asburgica apparivano particolarmente preoccupanti dopo l’elezione imperiale, che impose una ridefinizione dei rapporti tra i maggiori Stati europei. Così, per impedire che la tensione presente nelle corti di Francia e Inghilterra sfociasse nella creazione di un compatto e ostile fronte di alleanze, fu avviata una stagione di incontri diplomatici che tenne il G. a lungo occupato. Il risultato più importante fu l’accordo segreto tra Enrico VIII e Carlo V, steso dal G. a Canterbury (maggio 1520), che prevedeva reciproco sostegno in caso di guerra con il re di Francia. Quindi, il G. accompagnò Carlo V nelle Fiandre e nel Brabante, da dove giunsero forti sussidi finanziari, e nei nuovi incontri di Gravelines e Calais con Enrico VIII (12-14 luglio 1520), per trattare di un matrimonio Asburgo-Tudor, successivamente tramontato. Il G., malato, non assistette invece all’incoronazione dell’imperatore ad Aquisgrana (23 ott. 1520).
Frequenti ricadute impedirono ancora al G. la normale attività fino al gennaio 1521, quando si recò a Worms, dov’era convocata la prima Dieta imperiale, con lo scopo di reperire sussidi finanziari. Da qui il G. indirizzò un nuovo memoriale a Carlo V, nel quale, oltre a riproporre i suoi progetti di riforma dei Consigli, raccomandava di vigilare sulle uscite, divenute incontrollabili per le continue frodi dei ministri. Carlo V appariva però più occupato dalla discussione che la Dieta stava per affrontare sull’atteggiamento da tenere nei confronti di Martin Lutero, già condannato dalla Chiesa romana. A riguardo, il G., come Erasmo da Rotterdam, con il quale era entrato da poco in contatto epistolare, non riteneva opportuno procedere a una soluzione di forza, temendo, durante la rivolta in Castiglia, l’apertura di un nuovo fronte interno; anzi, secondo quanto riferì, allarmato, il nunzio pontificio Girolamo Aleandro, reclamava un concilio generale, che entrasse nel merito della controversia dottrinale. Carlo V invece, pur avendo acconsentito ad ascoltare Lutero, lo colpì con la severa condanna dell’editto di Worms (29 maggio 1521).
Le divergenze tra l’imperatore e il G. sulla soluzione del problema religioso in Germania non pregiudicarono la sua posizione: scomparso alla fine di maggio 1521 il filofrancese Chièvres, il G. era considerato il principale responsabile della politica imperiale, la quale, in effetti, era orientata ormai verso un deciso mutamento di rotta: l’alleanza militare con Leone X, agevolata dalle misure prese contro Lutero. Era il preludio dello scontro con Francesco I, il quale, non ancora conclusa la Dieta, aveva dapprima sobillato rivolte nelle Fiandre e poi ordinato l’invasione della Navarra.
Le operazioni militari divampate sui Pirenei, nei Paesi Bassi, nel Nord della Francia, in Italia, non impedirono la convocazione, su invito del cancelliere inglese Thomas Wolsey, di una conferenza fra i belligeranti a Calais, nella quale il G., pur propenso alla decisa prosecuzione della guerra, guidava la delegazione imperiale. Ostacolati i lavori da una lunga fase di diffidenza, solo nell’ottobre 1521 si giunse a un aperto confronto, rivelatosi un vero successo personale del G., il quale, dopo aver dimostrato la responsabilità di Francesco I nell’inizio delle ostilità, rivendicò per parte di Carlo V regioni come il Delfinato e la Provenza, con impeccabili argomentazioni giuridiche, concedendo solo la rinuncia all’intera Francia, infeudata da papa Bonifacio VIII ad Alberto I d’Austria all’inizio del Trecento. Neppure sulla conclusione di una tregua il G. si dimostrò duttile, discutendone solo in occasione di preoccupanti notizie dai fronti. Invece, secondo le istruzioni ricevute, cercò di avvicinare gli Inglesi, favorendo i negoziati di Bruges tra il Wolsey e Carlo V, conclusi con un trattato (22 nov. 1521), che prevedeva una segreta alleanza militare tra il papa, l’imperatore ed Enrico VIII.
Questo periodo di forte intesa fra l’imperatore e il suo cancelliere era tuttavia destinato a tramontare rapidamente: le attese del G. di subentrare nel ruolo appartenuto allo Chièvres furono infatti presto frustrate dal crescente impegno personale di Carlo V nel governo. Così, al ritorno da Calais, il G. riprese la consueta attività: accompagnò l’imperatore in Inghilterra, dove, nel luglio del 1522, venne formalizzata l’alleanza con Enrico VIII contro la Francia; quindi, al rientro della corte in Spagna, conclusa la rivolta dei Comuneros, concorse alla ricostruzione del consenso interno adoperandosi particolarmente durante i difficili dibattimenti delle Cortes di Castiglia riunite a Valladolid nell’estate del 1523.
Sul fronte diplomatico il G. aveva, nel contempo, personale cura di due progetti, volti a superare lo stallo della situazione politico-militare dopo gli iniziali successi che, nella prima metà del 1522, avevano permesso la riconquista del Milanese. Il primo consisteva nell’avvicinare Adriano VI, il pontefice fiammingo succeduto a Leone X nel gennaio 1522, incline alla neutralità, nonostante fosse stato precettore dell’imperatore; il secondo era il tentativo di concludere un’alleanza militare con Venezia, che fin dal 1520 egli aveva tentato di distogliere dall’alleanza con la Francia. Entrambi gli obiettivi sembrarono raggiunti nel luglio 1523, con patti che legavano il papa, Enrico VIII e Venezia contro Francesco I.
Pur essendo considerato il personaggio di maggior spicco della corte, il G. appariva insoddisfatto della propria situazione. Già intorno alla metà del 1523 si era lamentato con Carlo V della scarsa attenzione per i suoi progetti di riforma, dell’eccessivo carico di lavoro, dei ritardi nelle retribuzioni, che causavano debiti; e aveva chiesto di frenare l’ascesa di personaggi emergenti, come i segretari Francisco de los Cobos y Molina e Jean Lalemand. Ciò tuttavia non gli impedì di sottoporre ancora una volta, alla fine del 1523, un memoriale di ampio respiro a Carlo V e ai suoi consiglieri.
Il G. toccava anzitutto problemi di politica ecclesiastica, proponendo la riforma del tribunale dell’Inquisizione per tutelare i sudditi spagnoli, e l’avvio della evangelizzazione del Nuovo Mondo, secondo i progetti di Bartolomé de Las Casas, che egli aveva appoggiato fin dal 1519-20. Riguardo agli organi di governo, il G. prospettava uno snellimento delle procedure, soprattutto per il basilare Consiglio di Stato (istituito nel 1522-23), con una più razionale divisione delle funzioni. Anche le finanze dovevano essere riorganizzate (il G. lo aveva sostenuto nell’ottobre 1521 in riferimento al Regno di Napoli) per ottenere il rispetto delle previsioni di spesa e il controllo sui bilanci. Le riforme non dovevano però stravolgere gli ordinamenti giuridici e le consuetudini dei Regni. Da ultimo, il G. prendeva in esame i temi di politica estera esortando, visto l’incerto andamento delle armi imperiali, a condurre con decisione le campagne militari avviate e a completare la riconquista della Navarra.
Particolare rilievo era dedicato alla situazione italiana. A tale riguardo il G., che si candidava larvatamente a recarsi nella penisola per curare i rapporti tra Carlo V e gli Stati italiani, raccomandava di premere sul nuovo papa Clemente VII affinché confermasse gli impegni presi contro i Francesi, e, soprattutto, di restituire al più presto il Ducato di Milano a Francesco II Sforza, per rassicurare i principi italiani sulle intenzioni dell’imperatore.
La situazione rimaneva incerta: mentre i suggerimenti del G. sulla riorganizzazione dei Consigli imperiali trovarono largo ascolto, più difficile si dimostrò l’obiettivo di consolidare la momentanea supremazia imperiale, che militarmente si espresse solamente, nell’inverno 1523-24, nella riconquista di Fuenterrabía, in Navarra. In questo contesto, alla fine di maggio del 1524, si diffuse la notizia di un viaggio del G. presso il pontefice, favorevole a una tregua.
Secondo Carlo V, il G. avrebbe dovuto soprattutto prestare la sua competenza giuridica alle trattative per una pace generale, affiancando l’ambasciatore a Roma, il duca di Sessa, Luis Fernández de Córdoba. Ma, senza un mandato più ampio, il G. rifiutò di partire, e fu sostituito da Gérard de la Plaine, signore di La Roche.
Peraltro, nell’estate del 1524, mentre gli Imperiali tentavano, con scarso successo, l’invasione della Provenza e i Francesi preparavano la discesa in Italia di un forte esercito, non apparivano realistiche le ipotesi di tregua o di pace. Maggiore disponibilità a un accordo trovò l’arcivescovo di Capua, Nikolaus von Schönberg, in missione alla corte di Carlo V per conto di Clemente VII, dopo i rovesci degli Imperiali in Provenza e l’invasione della Lombardia da parte dell’esercito francese guidato da Francesco I, che entrò a Milano nell’ottobre 1524. Durante questi colloqui, nel novembre, il G. cercò di ottenere la nomina cardinalizia, ma senza esito.
La critica situazione politico-diplomatica originata dai successi francesi in Italia e dal passaggio di Clemente VII dalla parte di Francesco I (dicembre 1524) fu risolta dalle armi: a Pavia, infatti, l’esercito imperiale, sebbene mal pagato, riuscì a sbaragliare i Francesi e a catturarne il re (24 febbr. 1525). Il G., ricevutane notizia, indirizzò a Carlo V alcuni memoriali, allo scopo di sfruttare appieno la vittoria.
Il suo piano mirava a ridimensionare il peso politico della Francia: l’imperatore doveva pretendere la Borgogna, sua eredità, e la Provenza, per infeudarla a Charles de Bourbon-Montpensier, nobile francese passato ai suoi servigi nel 1522-23; stringere matrimonio tra una Asburgo e l’erede di Francia, per ricondurre il Delfinato all’antico vassallaggio con l’Impero; tenere sotto minaccia militare la Linguadoca, regione che opportune indagini storico-giuridiche potevano dimostrare appartenere all’Impero. Insomma, il G. prefigurava l’ingresso di tutte le regioni meridionali francesi nell’orbita asburgica, per aprire una via di collegamento fra l’Aragona e l’Italia, dove invece non reputava necessarie ulteriori conquiste: a condizione però di limitare il potere del papa, sottraendo al suo dominio Parma, Piacenza e Modena e, soprattutto, usando come arma di pressione politica la convocazione di un concilio generale che discutesse i fermenti di riforma. In questo modo, Carlo V avrebbe potuto recarsi in Italia senza timori, per essere incoronato.
L’asprezza delle ipotesi del G. rese il suo progetto scarsamente praticabile. Appariva invece maggiormente vicina alla sensibilità dell’imperatore, e più consona al difficile contesto politico e finanziario della monarchia, la proposta di un gruppo di consiglieri imperiali capeggiato da Charles de Lannoy (viceré di Napoli e comandante delle truppe imperiali in Italia), che, ponendo in secondo piano il viaggio in Italia, spingeva alla conciliazione con Francesco I, esigendo la sola Borgogna in cambio di un’alleanza sancita dal matrimonio del re di Francia con Eleonora d’Austria, sorella di Carlo V, già promessa al Bourbon-Montpensier. Il G., che nell’estate 1525 partecipò alla conferenza di pace, si dimostrò nettamente contrario al progetto del Lannoy, considerando il re di Francia in mala fede, e giunse a un aperto dissidio con Carlo V, acuito dalle antiche incomprensioni.
All’inizio di luglio del 1525, i rapporti tra Carlo V e il G. si deteriorarono a tal punto che questi, ritenendosi isolato a corte ed esautorato nelle funzioni di governo, si accinse a lasciare il servizio. Dopo avergli concesso in un primo momento licenza, con un personale intervento e la promessa di rimediare alla sua situazione finanziaria, Carlo V riuscì a trattenerlo a corte; tuttavia, non si privò della collaborazione dei consiglieri avversati dal G., primi fra tutti il segretario de los Cobos e il viceré de Lannoy.
D’altro canto, la posizione politica del G. non appariva ammorbidita. In un memoriale del settembre 1525, animando l’imperatore, il G. tornava a indicare nell’Italia la chiave dell’egemonia imperiale. Il suo progetto prevedeva anzitutto che gli Stati italiani, uniti in una lega, versassero ingenti somme per l’esercito e per il viaggio di incoronazione di Carlo V; che Clemente VII offrisse all’imperatore il suo appoggio in tutte le sedi diplomatiche, rinunciasse a pretese territoriali e, in un secondo momento, convocasse il concilio di riforma. Altresì, secondo il G., alcuni centri determinanti come Pisa o il Marchesato di Saluzzo dovevano passare sotto diretto dominio asburgico, per controllare vitali vie di comunicazione nella penisola. Più cauto appariva, invece, il G. nei confronti di Francesco II Sforza – suo signore feudale dal 1522 -, coinvolto nella congiura tentata da Gerolamo Morone per sottrarre il Ducato di Milano agli Imperiali (agosto 1525): una diretta annessione dello Stato, che il G. non escludeva se realizzata in un momento più opportuno, avrebbe ora acceso l’ostilità di tutti i potentati italiani contro Carlo V. Quanto infine alla Francia, il G., traendo spunto da una grave malattia del re prigioniero, prendeva in seria considerazione l’ipotesi che, morto Francesco I, potesse passare sotto la tutela dell’Impero.
Il progetto era però minato dalle crescenti difficoltà finanziarie della monarchia imperiale, dal progressivo raffreddamento delle relazioni con l’Inghilterra e soprattutto dalla profonda ostilità di tutti i potentati italiani, originata proprio dal timore di quel predominio asburgico che il G., in modo non troppo traumatico ma certo non indolore, intendeva imporre alla penisola.
In tutt’altra direzione muovevano le trattative che nell’autunno 1525 i rappresentanti di Carlo V conducevano con gli emissari di Francesco I. L’isolamento politico e la ricaduta nella sua malattia tennero il G. lontano dai negoziati fino a metà dicembre, quando gli fu affidata la stesura materiale del trattato concluso a Madrid il 14 genn. 1526, secondo i termini proposti dal Lannoy: la Borgogna, Arras, Tournai e Lilla passavano a Carlo V, mentre Francesco I sposava Eleonora d’Austria. Il G., sempre avverso alla pace, rifiutò, secondo le prerogative del suo ufficio, di apporre il proprio sigillo sul trattato e si dichiarò pronto a dimettersi, accrescendo l’irritazione dell’imperatore.
Tuttavia, nemmeno il calcolo politico di Carlo V teneva conto di importanti fattori: il Regno di Francia, ricco di risorse, non poteva cedere la Borgogna senza riprendere le armi. Così, mentre alla corte imperiale cresceva il nervosismo per l’elusione degli accordi di Madrid, il G. dapprima si astenne dagli affari di Stato, in attesa di vedere confermate le sue previsioni, comuni del resto a tutti gli osservatori politici avvertiti. Poi, nonostante il malumore per la preminenza del Lannoy a corte, il G. tornò alle fatiche del governo e della diplomazia.
La conclusione della Lega antimperiale di Cognac (24 maggio 1526), che, con il benestare inglese, vedeva uniti il papa, Venezia, Francesco Sforza (investito duca di Milano nell’ottobre 1524) e la Francia, faceva presagire un nuovo confronto militare in concomitanza con l’invasione dei Turchi in Ungheria. Nell’estate del 1526, il G. indirizzò a Carlo V diversi memoriali, nei quali, rassicurandolo sulla liceità di combattere il papa, primo responsabile del conflitto, elencava le misure da prendere.
La situazione gli sembrava ancora rimediabile, se Carlo V si fosse recato con grandi mezzi in Italia. Consigliava dunque di radunare un forte esercito, al quale avrebbero concorso anche i tedeschi seguaci di Lutero, che il G. proponeva di graziare fino alla convocazione del concilio generale. Contemporaneamente, si doveva ancora trattare con il legato papale (il card. Giovanni Salviati), con Venezia e gli altri potentati italiani per sviarli dalla Lega. Come ultima alternativa, il G. suggeriva di concludere un’alleanza con tutti i soggetti politici, come la famiglia romana dei Colonna, in grado di minare dall’interno il potere pontificio. In ogni caso, si doveva inviare in Italia un rappresentante imperiale che giudicasse il duca di Milano e provvedesse alla difesa del Regno di Napoli. Con Francia e Inghilterra, infine, gli sembrava ancora aperta la via diplomatica, a condizione di tenere fermo il trattato di Madrid.
I provvedimenti presi rispecchiavano solo in parte questi consigli, anche a causa dell’inizio delle operazioni militari della Lega in Lombardia: Carlo V lasciò circolare voci di un suo viaggio in Italia, pur non avendo intenzione di compierlo; sembrò avvicinare i luterani, ma non si impegnò nell’ipotesi di revoca o revisione dell’editto di Worms. Trattative diplomatiche furono invece condotte a vasto raggio e videro il G., come di consueto, protagonista.
Più stretta apparve la collaborazione tra Carlo V e il suo cancelliere in occasione di un duro confronto con il papa. Il 20 ag. 1526 il nunzio pontificio Baldassarre Castiglione consegnò all’imperatore un breve di Clemente VII che lo indicava come responsabile della crisi e lo invitava a entrare nella Lega di Cognac. Carlo V, senza mostrare risentimento, affidò al G. e ai suoi consiglieri il compito di rispondere adeguatamente. Così, nelle settimane seguenti, mentre l’imperatore ribadiva al Castiglione la sua disponibilità a trattare, il G. dettava le linee della risposta che, elaborata successivamente dai più influenti membri della corte, fu redatta dal segretario Alonso de Valdés (entusiasta seguace di Erasmo e vicinissimo al G.), approvata dal Consiglio e infine, senza tener conto dell’arrivo a corte di un secondo breve più moderato, consegnata al Castiglione (17 sett. 1526). Vi erano contenute pesanti accuse alla politica temporale e alla dignità morale del pontefice, che preferiva la guerra alla pace della Cristianità, insieme a cupe previsioni. Carlo V lasciò credere che il G. fosse l’artefice di questa posizione.
Lo scontro venne amplificato dalla successiva campagna di propaganda, alla quale il G., consapevole delle potenzialità della stampa, contribuì, stimolando la pubblicazione dei Pro divo Carolo… apologetici libri duo (Colonia, presso Peter Quentell, marzo 1527, e Magonza, presso Johann Schoeffer, settembre 1527), comprendenti la replica ai brevi papali, una lettera al S. Collegio e la confutazione di un trattato a difesa di Francesco I, composta dal G. e intitolata Apologiae Madriciae conventionis… refutatio. Il G. tentò di coinvolgere nella disputa Erasmo, di cui a corte era divenuto sostenitore, proponendogli la pubblicazione del manoscritto della Monarchia di Dante, opera filoimperiale, colpita dalla censura ecclesiastica. Ma Erasmo, pur critico verso il carattere mondano del Papato, non condivideva la concezione di “monarchia universale” del G., sostenendo invece l’idea di una pacifica convivenza tra le grandi monarchie nazionali. Così, lasciò cadere l’invito.
Anche sul terreno delle trattative diplomatiche, riprese all’inizio del 1527, il G. si mostrò quanto mai duro, affrontando ruvidamente i rappresentanti di Francia, Venezia e Papato, pronti a trattare un accordo (gennaio-febbraio 1527). Quindi, alla fine del marzo 1527, con un’improvvisa decisione, il G. lasciò la corte per l’Italia, con l’intenzione di riordinare i suoi feudi di Gattinara e Romagnano, poco prima eretti in marchesato da Carlo V.
Fu difficile agli stessi contemporanei penetrare le intime ragioni di questa risoluzione. Alcuni sostennero che il G. doveva preparare la strada a qualche iniziativa di Carlo V, forse la sua discesa in Italia, o la convocazione del concilio, che il G. riteneva di poter dirigere. Altri, più verosimilmente, ipotizzarono che con questo mezzo estremo il G. intendesse spingere l’imperatore a concedergli una più consistente remunerazione, per sanare i suoi debiti, che ascendevano ormai a 34.000 ducati. Ma non va sottovalutato il motivo rivelato dallo stesso G., cioè il pronostico di un astrologo secondo il quale la pace in Italia sarebbe stata conclusa da una figura nella quale egli si riconosceva. Il G., infatti, era noto per l’assidua consuetudine con le profezie, fusa peraltro con la norma umanistica di ricavare previsioni dall’esperienza storica.
Il G. non raggiunse i suoi possedimenti: imbarcatosi alla fine di maggio 1527 a Palamós, dopo aver adempiuto a un voto nell’abbazia di Montserrat, sbarcò a Monaco il 3 giugno, per rimanervi circa venti giorni, durante i quali gli giunse notizia del sacco di Roma (6 maggio 1527) e della morte del Bourbon-Montpensier, candidato a reggere il Ducato di Milano.
Erano eventi che mutavano profondamente la situazione. Il G. indirizzò allora un memoriale all’imperatore sollecitandolo a scegliere: assumersi la responsabilità del sacco, dichiarando Clemente VII usurpatore del soglio pontificio, oppure addossarla ai suoi generali, sollecitando però il papa alla pace e al concilio; in ogni caso, gli appariva urgente che Carlo V si recasse in Italia, per porre rimedio ai disordini causati dalle armi imperiali, e cogliesse l’occasione per infeudare Milano al figlio neonato, Filippo d’Asburgo. Quindi, diretto in Piemonte, il G. raggiunse Genova rischiando, nel breve tratto di mare, di cadere nelle mani dei nemici. Neppure nella città ligure si trovò al sicuro: infatti, nell’agosto del 1527, disceso in Italia l’esercito di Odet de Foix, visconte di Lautrec, una spedizione francese e veneziana fu inviata contro la città, già stretta d’assedio dal mare. Il G. collaborò con i Genovesi per ristabilire la situazione; poi, persa ogni speranza, fuggì, raggiungendo Barcellona il 28 ag. 1527, dopo una forzata sosta in Corsica.
Solo nell’ottobre 1527, senza essere formalmente richiamato, il G. rientrò a corte, ben accolto tuttavia da Carlo V. Subito si dimostrò scettico sulle trattative di pace con Francia e Inghilterra (apertamente alleate dall’aprile 1527), sollecitando l’imperatore a potenziare i suoi eserciti e ad avviare i preparativi per uno sbarco in Inghilterra. Le relazioni diplomatiche furono del resto interrotte nel gennaio del 1528, quando gli araldi nemici dichiararono ufficialmente guerra: al G. spettò il compito di respingere le accuse mosse a Carlo V e di curare la stampa delle risposte.
Il G. intendeva recarsi come plenipotenziario nella penisola, dove ancora si combatteva, per perfezionare gli accordi stesi a Roma con il pontefice (novembre 1527) e per avviare trattative con gli Stati ancora ostili. Ma Carlo V negò il suo assenso, diffidente verso le iniziative dell’irrequieto Gattinara.
Ripresa l’ordinaria attività, il G. attese dapprima, tra maggio e luglio del 1528, al buon esito delle Cortes di Monzón, che concedettero forti sussidi a Carlo V. Quindi, sebbene ammalato, stese gli accordi per il passaggio (ventilato già nel 1527) di Andrea Doria e della sua flotta al servizio dell’imperatore, fatto decisivo per il prevalere degli eserciti asburgici in Italia e per il ritorno di Genova alla fedeltà imperiale.
Il G. vedeva ormai il compimento dei suoi disegni. Sempre nella seconda metà del 1528 l’imperatore iniziò a mostrare apertamente l’intenzione di farsi incoronare in Italia, spinto, oltre che dai continui stimoli del G., dalla volontà di chiudere la lunga lotta per la supremazia nella penisola, cui era stato costretto dalle ambizioni francesi, e di riallacciare buoni rapporti con il Papato dopo la crisi del 1527. Di fronte alle opposizioni della corte, Carlo V reagì sempre più decisamente, confortato dai pareri favorevoli dei capi militari in Italia e del G., che non sottovalutava però le difficoltà costituite dalla presenza in Lombardia dell’esercito francese al comando di François de Bourbon, conte di Saint-Pol.
I preparativi si fecero più intensi nella primavera del 1529: mentre Carlo V si spostava a Saragozza, a Barcellona si armava la flotta, nelle Fiandre e in Germania si arruolava un forte esercito. L’occasione maturò nell’estate, con il ritiro dal Norditalia delle truppe francesi, sconfitte a Landriano (21 giugno 1529), con la conclusione di un accordo col papa, al quale il G., fiaccato dalla malattia, aveva atteso insieme a Nicolas Perrenot de Granvelle, figura emergente della diplomazia imperiale, e con l’inizio delle trattative che avrebbero portato alla pace di Cambrai (3 ag. 1529).
Carlo V sbarcò a Genova il 12 ag. 1529, seguito tre giorni dopo dal G., in cattivo stato di salute. A Roma, intanto, il papa lo creava cardinale, conferendogli il titolo di S. Giovanni ante portam Latinam; la consegna delle insegne avvenne nel settembre del 1529 a Piacenza, dove il G. era giunto insieme all’imperatore. Espletate le formalità, il G. passò alle trattative.
Le questioni più scottanti erano rappresentate dai destini di Francesco Sforza, di Milano e del Ducato di Ferrara, reclamato dal papa. Verso la fine di ottobre il G. incontrò privatamente a Cremona lo Sforza, quindi, a Ferrara, il duca Alfonso I d’Este, passato nel novembre del 1527 alla Lega di Cognac. Infine, il 30 ott. 1529, il G. giunse a Bologna, dove Clemente VII attendeva l’imperatore per i colloqui di pace. Il G. non assistette però all’ingresso trionfale di Carlo V, il 5 nov. 1529; preferì tenersi in disparte (con il pretesto dei motivi di salute), appartenendo ora tanto al Collegio cardinalizio quanto alla corte imperiale.
Le trattative entrarono nel vivo all’arrivo dell’ambasciatore veneziano Gasparo Contarini, che per il G. fu un alleato utile al fine di ammorbidire la posizione di Carlo V verso Francesco Sforza, al quale fu data occasione di impetrare il perdono (22 nov. 1529). Su queste basi, il negoziato, guidato sempre dal G., si concluse in modo relativamente facile: dietro compenso di 800.000 ducati e la consegna delle fortezze di Milano e Como, lo Sforza ottenne l’investitura del Ducato di Milano. Il G. concluse inoltre positivamente, insieme al Granvelle, al de los Cobos e a Louis de Praet, gli accordi di pace e di alleanza con Venezia, il papa e i principali Stati italiani, eccetto Firenze, ferma nella sua resistenza, dopo la cacciata dei Medici nel maggio 1527. Rimanevano insoluti solo gli attriti fra il papa e il duca di Ferrara, con il quale il G., all’inizio del 1530, tentò ancora più volte una soluzione per la restituzione di Modena, Reggio e Rubiera alla Sede apostolica.
Definite le questioni politiche, il G. si dedicò al consolidamento della sua posizione: cercò, senza successo, di ottenere rendite sulle entrate del Ducato di Milano, peraltro esausto, aspirando, in un secondo momento, alla ricca diocesi di Monreale, vacante dal 7 febbr. 1530. Ma anche questa ambizione – come quella, mai apertamente confessata, di essere nominato viceré di Napoli – fu frustrata, preferendo l’imperatore caldeggiare il conferimento di Monreale al card. Pompeo Colonna. A causa del peggioramento delle sue condizioni di salute, il G. non assistette all’incoronazione di Carlo V a Bologna (24 febbr. 1530), e a fatica lo seguì a Innsbruck, in previsione di un incontro con Ferdinando d’Asburgo. Qui, il 5 giugno 1530, il G. morì.
Nei suoi ultimi giorni era stato visto studiare le opere di Erasmo, forse per documentarsi in vista della Dieta convocata ad Augusta, che secondo i disegni imperiali avrebbe dovuto aprire la strada alla conciliazione religiosa. Si erano diffuse in quei giorni voci di una sua futura candidatura alla tiara, che è però difficile ritenere fosse gradita all’imperatore.
Da tempo, infatti, Carlo V appariva emancipato dal G., dopo averne assimilato i metodi di lavoro, basati sullo sforzo di esaminare ogni problema nel suo contesto, di valutare ogni alternativa soluzione, di tenere coerentemente presenti le esigenze di complessi e differenti domini. Per questi motivi l’imperatore, come aveva già deciso nel marzo 1526 in occasione di un grave scontro col G., non nominò un successore, preferendo suddividerne le competenze tra diversi ministri e segretari.
Il G. era comunque riuscito nell’obiettivo di assicurare alla sua discendenza stabili possedimenti feudali in Piemonte: nel testamento lasciò alla figlia Elisa, vedova di Alessandro Corradi, solo beni mobili, e nominò il nipote Giorgio (figlio del fratello Carlo) successore nella contea di Gattinara (infeudatagli da Massimiliano I nel 1513 e confermata successivamente dal duca Carlo II di Savoia e da Carlo V) e nel marchesato di Romagnano, infeudatogli come contea da Francesco Sforza nel 1522, poi fuso nel marchesato di Gattinara e Romagnano eretto nel marzo 1527 da Carlo V; mentre Giacomo (figlio del fratello Cesare) fu indicato erede nella contea di Sartirana (concessa in feudo insieme con Valenza da Francesco Sforza nel luglio 1522).
Opere: Historia vite et gestorum per dominum magnum cancellarium (M. A. di G.), con note, aggiunte e documenti, a cura di G. Bornate, in Misc. di storia italiana, XLVIII (1915), pp. 233-585 (memoriale del settembre 1525: p. 459); trad. ital.: M. Arborio da Gattinara, Autobiografia, a cura di G. Boccotti, Roma 1991. L’autobiografia autografa del G. è fedele al paradigma stilistico dei Commentarii di Giulio Cesare, ripreso nel Quattrocento dall’umanista Enea Silvio Piccolomini. La scelta di utilizzare il latino e, soprattutto, la terza persona rispondeva allo scopo dell’opera, verosimilmente destinata alla stampa: ripercorrere le proprie vicende dalla nascita, presentandosi come avvocato integerrimo, consigliere fedele e paziente, devoto agli Asburgo, incurante dei propri interessi, ed esaltare il carattere provvidenziale della politica imperiale, che, nell’estate 1529, quando fu composta l’autobiografia, sembrava al G. aver raggiunto gli obiettivi che egli aveva sempre indicato.
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