Aleramo

a cura di GIANCARLO PATRUCCO


Di Aleramo, poche sono le cose che sappiamo come attendibili  e comprovabili dagli atti giunti sino a noi. Forse è stata proprio l’enigmaticità della sua figura ad offrire il destro alle illazioni più disparate e forza alle leggende, alimentate anche dall’aspirazione di una casata plurisecolare – quella aleramica-paleologa – a trovare ascendenze in sacri lombi.

E’ fra’ Iacopo d’Acqui, nel suo Chronicon imaginis mundi, a raccontare per primo la storia di un bambino, figlio di nobili sassoni in pellegrinaggio verso Roma, lasciato a Sezzé e cresciuto con i nobili del luogo. Poi, diventato cavaliere, partecipa all’assedio di Brescia, dove si innamora della bella Alasia o Adelasia, figlia dell’imperatore Ottone. I due fuggono le ire del sovrano, nascondendosi sulle pendici appenniniche che sovrastano le coste liguri, dove Aleramo campa facendo il carbonaio finché avviene la riconciliazione. Ottone promette quale dote ad Aleramo il possesso di tutto quel territorio in desertis locis  che riuscirà a percorrere cavalcando tre giorni e tre notti. Di qui nascono la famosa cavalcata aleramica e la marca che va dal Tanaro alla Bormida, dal Po al mare.

Inutile aggiungere che nulla di tutto ciò è vero, tranne la marca ovviamente,  ma viene alimentato nei secoli da altre immaginifiche storie: Aleramo che durante la cavalcata ribatte con un mattone il ferro del cavallo (mun fra’); Aleramo e Alasia fondatori di Alassio; Aleramo eroe degli scontri con i Saraceni, che sconfigge a Vinchio e ad Acqui. Ma la grande fama giunge con Giosué Carducci. E’ Carducci a  riprendere la leggenda di Aleramo in “Cavalleria e Umanesimo”, che potrete leggere nella riedizione curata da Roberto Maestri per il “Circolo dei Marchesi del Monferrato”, nel 2009.

Ora, però, è tempo di lasciare le leggende e di venire ai fatti.

Dai documenti a noi pervenuti, il nome di suo padre, conte Guglielmo (vedi scheda corrispondente) compare per l’ultima volta nel 924. Quello di Aleramo appare invece per la prima volta nove anni dopo, quando il 25 luglio 933 i re Ugo e Lotario gli donano, a richiesta del conte Engelberto, la corte detta Auriola, tra il Lamporo e la Stura, nel comitato di Vercelli. Nell’intervallo fra queste date è, quindi, da collocare la scomparsa del genitore, di cui Aleramo prende il posto a corte.

Durante il regno di Ugo e Lotario, Aleramo sembra esprimere ottime doti di cortigiano, attestate da atti e riconoscimenti significativi:

– nel 935, su richiesta del vescovo di Lodi Ambrogio e del conte Eldrico, ottiene la corte di Foro, situata sul fiume Tanaro, nel comitato di Acqui, con tutte le pertinenze dal fiume Tanaro al fiume Bormida e dal luogo detto Barcile a Carpano, e inoltre della villa detta Ronco con tutti gli arimanni;

– dieci anni dopo, il 29 marzo del 945, Aleramo e il conte Lanfranco intervengono presso Ugo e Lotario per una donazione alla contessa Rotruda, al conte Elisiardo e alla sua consorte Rotlinda, figlia di re Ugo, di terre nel comitato di Tortona;

– il mese seguente, Aleramo presenzia a un placito regio a Pavia;

– il 5 luglio 948 interviene presso re Lotario in favore di un suo fedele, tale Varimondo.

Questo è l’ultimo atto conosciuto sotto il regno di Lotario, che muore a Torino nel 950, non si sa se di malattia o di veleno. Ma Aleramo mostra le sue doti diplomatiche anche sotto il regno del successore di Lotario, Berengario d’Ivrea, nipote di quel Berengario marchese del Friuli che fu re d’Italia col nome di Berengario I. Tra il 958 e il 961 re Berengario II, che ha associato al trono il figlio Adalberto, concede allo “inclito marchioni Aledrammo fideli nostro” di creare e stabilire mercati nei suoi possedimenti, riservando a lui e ai suoi eredi ogni diritto.  La richiesta perviene dalla figlia del re, Gerberga, promessa sposa di Aleramo.

E qui arriviamo all’atto di fondazione dell’abbazia di Grazzano, oggi Grazzano Badoglio nell’astigiano. In questo documento del 961 apprendiamo che:

– tutti i convenuti dichiarano di professare la legge Salica, denunciando quindi la loro provenienza franca;

– nella donazione interviene Gerberga, che Aleramo ha da poco sposato in seconde nozze e anche due dei figli avuti da Aleramo in prime nozze: Anselmo e Oddone;

– il terzo, Guglielmo, probabilmente il primogenito perché ripete il nome del nonno, è morto e l’abbazia viene fondata proprio in sua memoria.

Un passo avanti, ma sempre troppo poco per risolvere i molti interrogativi che ancora gravitano intorno alla figura di Aleramo, come la sua data di nascita, ad esempio, e i suoi famigliari coevi; oppure l’identificazione di un eventuale comitato a cui il nostro fosse preposto; e, ancora, notizie della sua prima moglie, che sembra svanita nel nulla.

A questi ultimi interrogativi prova a fornire qualche elemento in più  Aldo A. Settia, in un saggio recentissimo dal titolo già di per sé significativo: “Nel “Monferrato” originario, I luoghi, il nome e il primo radicamento aleramico. Rettifiche e nuove ipotesi”. Lasceremo agli interessati l’approfondimento dei particolari contenuti nel testo, di cui diamo la collocazione in bibliografia, per riportare qui soltanto le conclusioni che stanno nei limiti di questa scheda biografica:

Il nome “Monferrato” avrebbe inizialmente contrassegnato, in tutto o in parte, la porzione del comitato di Lomello che si spingeva a destra del Po e a sinistra del Tanaro…. Non risulta che la denominazione … abbia mai assunto una connotazione pubblicistica di circoscrizione territoriale.

Nel 967 Aleramo deteneva beni nel primitivo “Monferrato” fra Tanaro e Po… (ed) è fondato ritenere che, almeno in parte, coincidessero con i luoghi ivi posseduti dai suoi immediati discendenti….Considerazioni simili dovettero indurre Tommaso Terraneo a congetturare che, se Aleramo era stato conte di un preciso comitato (ciò che rimane da provare), questo poteva essere individuato solo «in quello antico di Valenza fra Tanaro e Po»; per quanto la città non sia mai stata sede di un proprio comitato, l’intuizione dello storico settecentesco rimane territorialmente significativa.

A Paciliano si collegavano topograficamente i beni posseduti da Aleramo nell’entroterra collinare fra Po, Stura e Versa da lui donati nel 961 al monastero di Grazzano; essi, si è notato, dovevano trovarsi nelle sue mani già «assai prima» di tale data poiché per alienarli egli dovette assicurarsi «il consenso dei figli di primo letto». Si dispone così di un indizio importante per pensare che essi provenissero dalla dote della prima moglie…. L’osservata contiguità dei possessi in Paciliano e in Valenza, e forse anche in Felizzano, autorizza per lo meno il sospetto che Aleramo avesse sposato in prime nozze una donna affine alla madre di re Ugo, attraverso la quale gli sarebbero pervenuti in dote i beni nella zona collinare a destra del Po.  

Non è molto, ma almeno è qualcosa in confronto ai tanti altri dubbi di cui dobbiamo ancora parlare.

Aleramo sembra passare indenne il periodo convulso che si situa fra l’inizio del regno di suo suocero Berengario II alla fine del 950: la prigionia di Adelaide, la vedova di Lotario;  la calata in Italia del re Ottone di Germania; la fuga di Berengario; l’incoronazione di Ottone e il suo matrimonio con Adelaide; il tutto nel 951. E, a seguire, la finta sottomissione di Berengario, la sua successiva ribellione, la nuova calata di Ottone nel 961, la definitiva sconfitta di Berengario nel 963 e la sua deportazione a Banberga, dove morirà nel 966.

Questa data sembra fare da spartiacque nell’atteggiamento politico di Aleramo. Finché Berengario è vivo, il nome del nostro non figura in un alcun documento regio e la sua presenza non viene rilevata in alcun placito. Anzi, la sua fedeltà al suocero sembra ulteriormente comprovata dall’atteggiamento di alcuni sostenitori di Ottone, come il vescovo di Vercelli Ingone, il vescovo di Asti Brunengo e il conte Aimone, che approfittano della situazione per irrobustire il loro patrimonio a spese di quello del vicino Aleramo.

La situazione cambia però, radicalmente, in pochi mesi. Dopo la morte di Berengario, nell’agosto del 966, Aleramo deve essersi sentito sciolto da ogni obbligo di fedeltà nei suoi confronti e deve essersi riavvicinato  tra il 966 e il 967 alla corte ottoniana. Ciò gli varrà, nel marzo del 967, il riconoscimento contenuto nel famoso diploma di Ottone, nel quale non solo gli vengono confermati “tutti gli effetti e proprietà sue e di sua famiglia, dell’uno e dell’altro sesso, pervenutigli per eredità o acquisto, situati in diversi luoghi del regno italico”, ma anche “tutte le corti esistenti dal fiume Tanaro al fiume Orba e al lido del mare”. E, questa donazione aggiuntiva ci fa intuire come, con ogni probabilità, nel frattempo Aleramo avesse continuato il suo impegno nella difesa delle coste liguri insidiate dai Saraceni.

La presenza del nostro si ferma comunque qui. La sua ultima menzione nelle cronache si riferisce a un placito tenuto a Ravenna, nell’aprile del 967. Poi, più nulla di lui. Della data della sua morte possiamo soltanto arguire che essa sia avvenuta prima del  991, anno in cui all’atto di fondazione del monastero di San Quintino in Spigno, Anselmo dichiara di essere “filius bone memorie Aledrami itemque marchio”.

Non ci va meglio neppure sulla sepoltura. Molti dubbi, infatti, permangono sul fatto che la seconda cappella di destra dell’attuale chiesa parrocchiale di Grazzano Badoglio custodisca effettivamente le spoglie del capostipite della Marca Aleramica.

Accanto alla sua tomba c’è un dipinto che lo ritrae orante, attribuito al pittore Guglielmo Caccia, detto il Moncalvo, nato a Montabone nel 1568 e morto appunto a Moncalvo nel 1625. Circa 600 anni dopo la morte di Aleramo, tra l’altro vissuto in un periodo in cui è ben raro trovare raffigurazioni persino di personaggi ben più importanti del nostro marchese. Re, papi, imperatori, principi, messi in effigie giusto sulle monete, oppure in raffigurazioni un po’ “approssimative” in chiese, abbazie, arazzi.

Aggiungete, poi, che al Caccia il suo lavoro serviva per vivere. Dunque, niente di strano che abbia raffigurato il capostipite di una casa illustre per guadagnarsi riconoscenza, lavoro, stipendio. E la sua raffigurazione sia stata di maniera, basata più su quello che doveva essere, piuttosto che su quello che era. Ammesso che qualcuno potesse portare un ricordo.

Sul loculo si trova poi una lapide del XVI secolo, che aumenta la confusione perché racconta di un peristilio distrutto e di un trasferimento del sacello. Ciò viene a dire che Aleramo non è stato originariamente sepolto lì dove ora c’è la tomba, bensì in ambiente esterno, accanto alla chiesa o sul davanti. C’è chi dice di aver riscontrato manoscritti, da cui si deduce che quei resti provengono da un sacello recuperato nella chiesa campestre di san Martino. E che anche la spada, originariamente posata sulla tomba e oggi scomparsa, proveniva da san Martino, non era del X secolo e non apparteneva ad Aleramo.

E il mosaico del pavimento? Il professore casalese Olimpio Musso sostiene che sia databile al secondo secolo d. C., supponibilmente all’epoca di Adriano. Il mosaico, pur di origine pagana, si dev’essere salvato grazie al soggetto: i due animali mostruosi, infatti, servivano a proteggere la tomba del capostipite della dinastia aleramica, dice il professor Musso. Esiste, però anche una ricognizione dei Beni Culturali che lo data intorno al XII secolo, espressione di un’arte musiva di cui esistono altri esempi in chiese del Piemonte. Comunque sia, in entrambi i casi del tutto estraneo ad Aleramo e ai suoi resti.

Ma allora, quelli sono i resti del marchese o no? Questo sembra un altro mistero destinato a durare.

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