Bobba Marcantonio

di L. Marini in Dizionario biografico degli italiani, Cfr. www.treccani.it

Figlio primogenito di Alberto, conte palatino, e di Margherita Santamaria, nacque a Casale, nel marchesato di Monferrato, agli inizi del Cinquecento; ma non si sa con precisione in quale anno. Seguì la sua famiglia in Piemonte quando il padre, già consigliere dell’ultimo marchese, passò al servizio del duca di Savoia Carlo II. Si addottorò in diritto civile e canonico a Torino e si illustrò rapidamente presso il duca negli anni durissimi che il ducato sofferse con la ripresa delle lotte franco-asburgiche dal 1536; dopo il 1540 divenne “senatore” e consigliere ducale (vale a dire tout court membro del Consiglio cum domino, perché di Senato può propriamente parlarsi solo dal 1559 in avanti); dopo il 1550 divenne anche conservatore degli Ebrei, preposto cioè alla cura della giustizia relativa ad essi nello Stato; nel 1555 succedette al padre nel governo di Vercelli.

I suoi biografi hanno sempre celebrato la competenza che egli mostrò di possedere o di acquistare rapidamente nell’esercizio delle sue funzioni e le sue qualità di equilibrio politico. Occorre aggiungere che alla formazione della sua autorità presso Carlo III, e poi presso il suo successore Emanuele Filiberto, non giovarono di meno l’alto e costante senso che egli ebbe di sé, le manifestazioni mai trascurate della sua personalità particolarmente definita. E questo si potrebbe esemplificare più facilmente che mai ricordando certi momenti della sua attività di conservatore degli Ebrei, nel 1553, con Emanuele Filiberto; o ricordando l’orientamento che nel 1554 egli manifestò al duca a proposito del Tribunale delle udienze, che Emanuele Filiberto voleva ricostituire e del quale, senza mezzi termini, egli fece intendere che avrebbe desiderato e anzi avrebbe ritenuto giusto esser fatto presidente. E si noti come egli avesse prima proposto che il Tribunale fosse ricostituito distinto dal Senato – o Consiglio cum domino -, e quindi potesse pure giudicare in ultima istanza delle decisioni del Senato.
La condizione aristocratica del B., la presenza nella sua famiglia di collaboratori di principi, contribuirono insomma, e con la sua dottrina, a fare di lui un uomo che non aveva certo preoccupazioni e timidezze neppure nei suoi rapporti con Emanuele Filiberto. In quel tempo, inoltre, nel ducato la nobiltà rimasta prosabauda e il duca si incontravano nell’interesse per un governo che fosse condizionato il meno possibile dal terzo stato, e il loro interesse favoriva anche la franchezza dei loro rapporti. Di un tal clima partecipava anche il B. nella sua vita di magistrato e di consigliere ducale.

Quella vita per altro a un certo momento non gli bastò più. Intorno al 1556 egli lasciò lo stato laico ed entrò nell’ecclesiastico, dopo aver rinunciato alla primogenitura e ai relativi beni e prerogative a favore del fratello Ascanio. Ai suoi caratteri, che abbiamo già ricordato, si erano infatti sempre accompagnati un forte e cattolico senso della vita religiosa, un interesse aperto per la maggiore efficienza del potere politico là dove fosse in accordo con Roma. E dunque non potrebbe parlarsi senza errore di una soluzione di continuità fra la sua vecchia e la sua nuova vita in quei primi tempi e poco dopo, quando, verso la fine del vescovado di Pietro Gazino, Emanuele Filiberto lo fece suo coadiutore nel governo della diocesi di Aosta, e poi il 22 maggio 1557 da Bruxelles lo propose come suo successore: valendosi presso il papa Paolo IV del diritto di provvedere ai vescovadi, alle abbazie e ai benefici del ducato, che era riconosciuto ai duchi di Savoia per l’indulto di Niccolò V dal 1451, e che ancora nel 1554 Giulio III aveva confermato. Fu, il suo, “il primo caso noto a tutt’oggi di intervento diretto del duca di Savoia nella nomina del vescovo d’Aosta” (Frutaz, p. 281). Il B. fu consacrato vescovo a Roma il 25 ag. 1557 e fece il suo solenne ingresso ad Aosta il 23 marzo 1558. Per Emanuele Filiberto egli era certamente l’uomo più adatto a succedere al Gazino, il cui lavoro diplomatico a pro del governo sabaudo non era stato inferiore al suo lavoro di vescovo: il duca insomma continuò con il B. nella più normale delle tradizioni del potere sabaudo. Nel suo intento il B. vescovo di Aosta avrebbe proseguito, e possibilmente più di prima, a sostenere la sua opera di governo.
E il B. confermò inizialmente ciò che in quel verso era atteso da lui nella Valle; collaborò infatti con i commessi e con i tre stati del clero, dei nobili e delle comunità, che lavoravano alla cura delle sorti del loro paese all’interno del ducato sabaudo, ma che proprio in quegli ultimi decenni erano impegnati anche fuori, con il governo francese, per mantenere la neutralità della regione; collaborò, ma non sposò mai le più esclusivistiche, le più locali fra le esigenze degli stati. Valsero per lui, di fronte ad esse, la presenza dei rappresentanti ducali nella Valle e la propria eminente condizione. Il suo accordo con i Valdostani fu certamente regolato dall’orientamento ducale; il principe, in una misura relativa ma pur sempre interessante, continuava a non gravare la mano sulla vita politica e giudiziaria degli abitanti del paese, e per esempio non contrastava l’attività dei commessi e degli stati come faceva nel resto dei suoi domini. E fu per l’iniziale buon accordo che il B. rappresentò i commessi nel giugno 1559 a Parigi, e portò a Emanuele Filiberto la testimonianza del favore valdostano per il suo matrimonio con Margherita di Valois e per la pace finalmente conclusa a Cateau Cambrésis.
Il B. ricercò inoltre subito una sua forma di collaborazione con i Valdostani. La ricercò indagando le condizioni dell’ortodossia cattolica nel paese – dove, dal primo settembre 1557, egli era anche commissario dell’Inquisizione -, e convinto che l’ortodossia occorresse alle fortune valdostane nello Stato sabaudo; la ricercò iniziando subito un rapporto fattivo con il suo clero e cioè convocando già nell’aprile 1558 un sinodo, che raccolse ad Aosta parroci e vicari da tutte le parrocchie della diocesi ed ebbe largo campo di rilevare vecchi mali, e avviò con la necessaria insistenza la ricerca dei rimedi.
Ma dall’agosto 1559 Emanuele Filiberto nominò il B. suo ambasciatore ordinario a Roma presso Paolo IV; e perciò gli ottimi inizi furono interrotti, l’andata a Roma allontanò il vescovo dalla cura d’anime che egli aveva così bene avviato sospese il dialogo del pastore, o per dir meglio lo proseguì solo attraverso l’opera di un coadiutore, l’urbinate Francesco Maria Enrici; e se l’operosità e la serietà di questo non mancarono di risentire anche dell’insegnamento del B., il problema gravissimo costituito dalla non residenza di tanti vescovi, proprio anche nello Stato sabaudo, tornò a riproporsi anche nella Valle, e per opera del B., la cui statura morale era per altro fra le meno discutibili.

Il compito del B. rimase pur sempre uno, ma appunto rimase uno come allora accadeva negli Stati cattolici; l’aristocratico ed ecclesiastico B. era impegnato nel campo temporale come nello spirituale, e per uscire da quel compito uno e duplice non bastavano, né per lui né per gli altri come lui, le sollecitazioni dei massimi spiriti della Chiesa di Roma e in particolare le sollecitazioni che avevano già avuto modo di farsi sentire al concilio di Trento. Sarebbe occorsa una trasformazione, allora impensabile, del modo stesso di governare gli Stati nei quali quel duplice lavoro si svolgeva. L’inevitabilità, dunque, della condizione del B. è fuori discussione. Ma con questo si è già detto che se il B. a Roma lavorò proficuamente per il governo sabaudo e per esempio giovò la sua parte all’istituzione a Torino della nunziatura, con il vescovo di Ginevra François Bachaud per nunzio, dal 1560, e ottenne in qualche caso denaro ecclesiastico al duca per la sua politica insieme monarchica e cattolica, il vescovo che egli era rimase in secondo piano; e di conseguenza gli orientamenti conciliari di purificazione della dottrina e di instaurazione di una migliore vita ed efficienza del clero, che egli condivideva contro molti che non li condividevano dentro e fuori il concilio, ebbero scarso modo di trovare nella sua diocesi una realizzazione.
Certo, il vescovado aostano, tradizionalmente difficile da reggere, avrebbe richiesto più che mai in quel tempo un uomo meno assillato del B. da compiti di prim’ordine ma tanto spesso non pastorali; quindi potremmo anche dire che la diocesi soffrì della lontananza del vescovo forse più di quel che soffrì il vescovo, per l’altezza dei compiti sabaudi e romani cui dovette attendere e per la sua stessa natura, della quale l’impegno pastorale non poteva essere la sola componente. Ma ciò non fa che aggravare quel che stiamo dicendo, e insieme apre un altro discorso di importanza anche maggiore per il Bobba.

A Roma, infatti, il B. andò rafforzando quella personalità, quel senso di sé, di cui dicemmo già; e li rafforzò particolarmente a vantaggio del papato, che doveva porre molta attenzione alle fortune proprie in quei tempi durissimi di lotte fra protestanti e cattolici. fra sostenitori della preminenza papale e sostenitori della preminenza del concilio sul papa, tra fautori e oppositori del concilio. Il B. sostenne sempre gli interessi sabaudi, è vero; ma intese quel sostegno sempre più nel senso di sottolineare presso il duca la necessità assoluta che egli andasse d’accordo con il papa.

Le difficoltà del governo sabaudo erano ben note al B.: egli sapeva bene quanto fosse precario l’esercizio del potere ducale, tra Francia e Spagna, con lo Stato da riorganizzare e in parte ancora da recuperare, con l’assillante questione di Ginevra sottrattasi ad ogni ingerenza sabauda fin dal 1526. Nondimeno egli faceva sue facilmente le lagnanze papali perché Emanuele Filiberto “tolerava il commercio” degli “heretici” in Piemonte, e perché lui e i suoi ministri “pareva che havessero rivolto tutto il loro studio in deprimere et annichilare la autorità et libertà de la Chiesa”: e scrisse queste cose nell’agosto 1561, a due anni dal recupero sabaudo dello Stato. Ma a Roma si era rimasti molto colpiti da un titolo, Del tribunale competente, che era parte dei Novi ordini et decreti intorno alle cause civili pubblicati allora, e secondo il quale il legislatore sabaudo disciplinava altrimenti che nel passato anche l’esercizio della giustizia ecclesiastica nel ducato, perché proibiva ai sudditi e comunque agli abitanti del ducato di ricorrere a tribunali stranieri senza il consenso dei loro giudici naturali. E perciò il B. mise le mani avanti: “Vostra Altezza sa ch’io sono de la professione et ho molti anni giudicato nel Senato suo, poi la continova et affettionata servitù mia stimo che mi debba liberare d’ogni sospetto, che potesse cadere nel animo de l’Altezza Vostra, ch’io come vescovo dovesse pendere da la parte de l’autorità ecclesiastica: perché Ella deve esser certa ch’io non sono così ingrato et imprudente che per un modo poco commodo, il quale io ho da godere pochi anni, volesse privar lei et la Casa sua di quello che giustamente se gli dovesse”. Ma dopo questa excusatio eccolo a dire che i decreti ducali erano contrari ai canoni e alla libertà ecclesiastica, e che di conseguenza dovevano essere riformati: come in effetti Emanuele Filiberto riformò, l’anno successivo (la lettera del B., da Roma, 29 ag. 1561, è in Archivio di Stato di Torino, Sezione I, Lettere ministri, Roma, mazzo 4).
Il duca era cattolico e aveva bisogno anche di Roma per la ricostituzione delle sue possibilità di governo, ma non poteva sottoporre quelle possibilità ai modi che erano propri del papato e che non erano i suoi: fu sintomatica fra le altre, nel 1564, la tensione fra lui e Pio IV a proposito dell’indulto di Niccolò V, che egli voleva ampliare e che il papa voleva restringere nei suoi effetti. L’opposizione contro i protestanti era una questione vitale per il duca, ma egli non poteva condurla secondo i soli criteri romani; nel suo Stato anche le forze ecclesiastiche dovevano valere al perseguimento di quel bene generale che egli cercava di organizzare intorno a sé, ma il più possibile con sé. E tutto questo spiacque sovente ai pontefici presso i quali il B. rappresentò Emanuele Filiberto, e non fu senza influenza sul B. medesimo.

È, insomma, da sottolinearsi l’inizio di un diverso e meno stretto rapporto fra il B. e il duca. Nondimeno il processo fu lento; e al suo svolgersi contribuì a un certo momento un’altra e importantissima esperienza del B., quella che egli fece a Trento lungo tutto il 1563 come oratore sabaudo al concilio.
Occorre già notare, in proposito, che fu il papa e non Emanuele Filiberto a far andare il B. a Trento; il consenso ducale venne dopo. Fu cosa assai normale che Pio IV volesse il B. a Trento, esperto com’era divenuto di tutte le sue qualità, stimolato ancora dal Borromeo, sincero amico del B.; mentre Emanuele Filiberto non sollecitava affatto, e da tempo, i vescovi del suo Stato a lasciarlo per andare al concilio. Ma l’inclinazione crescente del B. a preferire la causa romana e generalmente la Chiesa nei confronti del duca ebbe la sua parte nel determinare la cosa.
A Trento, il 31 genn. 1563 il B. tenne la sua Oratio, che poi tutti i suoi biografi hanno ricordato e a volte anche con eccessivo rilievo. A quei padri egli esaltò la cattolicità di Emanuele Filiberto, parlò delle dottrine riformate nello Stato sabaudo, sottolineò con efficacia la necessità di una miglior vita morale e di un rinnovamento dottrinale e l’importanza che il concilio aveva in proposito, quindi insisté perché i lavori del concilio terminassero finalmente e presto. Fu ascoltato con interesse e gli fu risposto con simpatia. Nei mesi che seguirono egli si illustrò soprattutto nelle discussioni intorno ai modi di ovviare agli abusi sul sacramento dell’ordine, e più ancora in quelle sulla disciplina dei matrimoni clandestini. E nell’un caso e nell’altro mostrò vivo l’impegno del riformatore cattolico, apparve ben convinto che ogni concessione ad esigenze riformatrici, sì, ma non controllate decisamente dal papato, avrebbe danneggiato le possibilità già non immense di affermare nella Chiesa le lunghe fatiche del concilio. Egli lavorò insomma per rafforzare il potere papale, come poi notarono già, per alcuni momenti della sua opera, il Sarpi e il Pallavicino. Ed è anche noto che nel maggio 1563 egli si adoprò perché il duca di Savoia accettasse come arcivescovo di Torino il cardinale di Aragona, voluto da Pio IV, e rinunciasse al Della Rovere che invece voleva, sulla solita base dell’indulto di Niccolò V. Per tutto ciò ebbe minor rilievo il fatto che egli difendesse gli interessi sabaudi quando, a proposito della “riforma dei principi”, sostenne i diritti di giuspatronato posseduti da Emanuele Filiberto. E dopo il concilio, nella tensione fra il duca e il papa che ricordammo più sopra, egli stette dalla parte del papa.
Nondimeno il duca poté ben sostenere la sua nomina acardinale, dopo che fu concluso il concilio. Il fatto che egli inclinasse verso la parte romana andava certo modificando i suoi rapporti con il governo sabaudo; nella vita dello Stato che ancor rappresentava a Roma egli contava progressivamente di meno nel contrasto fra le due classi politiche savoiarda e piemontese, che durava ed esprimeva tutti i maggiori interessi sociali e politici delle due grandi parti del ducato; egli era sì filospagnolo e perciò sostenitore di un orientamento politico preferito da molti Piemontesi e non dai Savoiardi, ma lo era essenzialmente per i motivi religiosi che ispiravano sempre più la sua opera e fu per questo, per aver sostenuto la elezione papale di Pio V Ghislieri, che Filippo II re di Spagna gli scrisse congratulandosi del risultato del conclave. Ma egli non sarebbe più servito a Emanuele Filiberto solo nel caso in cui avesse abbandonato Roma, la Curia, insomma la funzione anchepolitica, sua. Crescendo invece il suo prestigio a Roma, al duca addirittura conveniva esaltare quello, avere nel B. un principe della Chiesa ben sempre amico, e liberarlo dal compito di ambasciatore che doveva ormai essere assunto da altri: e continuasse pure il B. ufficiosamente, come accadde negli anni successivi, a tener quando poteva e voleva le parti del duca. Intanto, proponendolo come cardinale, Emanuele Filiberto poté ben scrivere di lui al Borromeo: “egli honoratamente s’è portato in tutte l’imprese nelle quali è stato adoperato così per servitio mio come per honor di Dio et di quella Santa Sede” (15 genn. 1564: Archivio di Stato di Torino, Sezione I, Registri Lettere Corte, 1563-1565, c. 77 r). Pio IV fece il B. cardinale nel marzo 1565, nella prima nomina di cardinali dopo la conclusione del concilio tridentino, e insieme ad altri fra i maggiori fautori del papato a Trento.
Intanto il B. aveva continuato ad accentuare i suoi interessi religiosi e aveva anche ripreso il suo lavoro pastorale ad Aosta, dove aveva fatto pubblicare il 27 marzo 1564 i decreti del concilio e aveva tenuto un secondo sinodo nel giugno 1564. Un terzo lo tenne poi nel maggio 1565, tre giorni dopo aver scritto a Emanuele Filiberto i noti consigli di moderazione a proposito dell’opera antiprotestante, che il duca riteneva ormai necessaria e che altri consiglieri suoi volevano immediata e drastica. È di quel tempo, inoltre, l’inizio degli sforzi del B. per la costituzione di un seminario ad Aosta.
In ogni caso, il vescovo B. curava il suo rapporto con il governo sabaudo solo quando non ne aveva danno la sua attività: confermò questo anche il suo conflitto nel 1564 con l’Avise, procuratore generale nella Valle, nel corso di un grave contrasto fra la sua giurisdizione e quella ducale risolto poi favorevolmente per la Chiesa valdostana solo l’anno successivo. Egli fu inoltre impegnato, ma in quel caso senza successo, dalla difficoltà di far accettare nella diocesi le norme disciplinari stabilite a Trento; il gallicanesimo nella Valle era antico e risolutamente difeso e quindi i decreti conciliari vi furono accolti per la parte dogmatica, non per la parte disciplinare; i contrasti del B. con l’Avise furono anche per ciò notevoli. Ma addirittura il governo sabaudo era restio ad accettare il concilio tridentino; e quell’orientamento, nonostante le sollecitazioni del Borromeo a Emanuele Filiberto, durò ancora a lungo, sino al 1574 e oltre.

Nell’autunno 1565 interessarono il B. a Milano i lavori del primo concilio provinciale radunato dal Borromeo arcivescovo: “io spero in breve partire per Torino a licentiarmi da Sua Altezza, et dopoi quanto prima trovarmi a basciar la mano a Vostra Signoria illustrissima”, il B. scrisse al Borromeo da Aosta il 24 settembre (Milano, Biblioteca Ambrosiana, F. 105 inf., c. 641r). Nel 1569 egli sarebbe poi tornato là per il secondo concilio. A Roma, sempre nel 1565, egli aiutò il papa e i cardinali più impegnati in quel verso alla realizzazione delle decisioni tridentine. Contribuì, s’è già detto, all’elezione di Pio V. Seguì ugualmente, anche da Roma, i problemi della sua diocesi. Ma evidentemente a Roma avrebbe voluto rimanere ancora, se fu lo stesso nuovo papa a sollecitarlo a tornare ad Aosta: egli lasciò allora la città nel marzo 1566. E poco dopo era di nuovo a Roma, e di là nell’ottobre raccomandò a Emanuele Filiberto la ferma volontà papale che un “heretico relapso di Vercellj” fosse fatto morire: la cosa gli dispiaceva, disse, e tuttavia non gli sembrava che si potesse “irritare” il papa per quella ragione (Pascal, p. 53). L’eretico era Giorgio Olivetta, e il duca resisteva alle pressioni romane.

Il B. si adoperò a Roma per Emanuele Filiberto già nel 1566, e poi conclusivamente nel 1572 presso il papa Gregorio XIII, per la costituzione degli Ordini di S. Maurizio e di S. Lazzaro in un Ordine unico sotto la guida del duca; e in quel giro di anni gli fu pure di aiuto nel sostenere i suoi interessi sul Monferrato. La massima parte del suo tempo era però sempre più occupata dagli impegni romani, dal suo lavoro per l’organizzazione ulteriore del governo papale. E così allora si aggravò anche il fatto delle sue assenze da Aosta.

Egli era ben uomo da volere visitare la sua diocesi, e tuttavia la visita non gli era mai stata possibile; dovette incaricarne finalmente nel 1567 l’agostiniano Gerolamo Ferragatta, e certo compì un’ottima scelta perché le qualità del visitatore, la sua esperienza in proposito, compiuta già nel 1562 per conto del Borromeo nell’arcidiocesi milanese, erano notevoli, e la visita della Valle fu molto accurata e il merito di averla compiuta non fu del B. meno che del Ferragatta. Ma i tre mesi che il visitatore spese, con tutte le fatiche che i tempi comportavano, segnarono pur sempre una crisi nel governo pastorale del B., che nell’aprile 1568 finì per rinunciare al vescovado e proprio a beneficio del Ferragatta.

Sempre nel 1568 Pio V fece il B. protettore dell’Ordine cartusiano. Nel 1571, assente il vescovo Guido Ferrero, il B. governò la diocesi di Vercelli. E poi Gregorio XIII, che lo ebbe caro, lo impiegò insieme ai cardinali Orsini e Giustiniani per rafforzare l’opera della Congregazione per la giurisdizione ecclesiastica. Nel 1574 egli era membro della Segnatura. Nel 1575, e forse già prima, era prefetto della segreteria dei brevi.
Di onore in onore, di autorità in autorità, il B. conservò tuttavia sino alla fine anche eccellenti qualità morali; non lasciò mai di perseguire la semplicità della vita cristiana in sé come negli altri, nei conventi che dovette riformare come nella propria vita: su tutto ciò il consenso dei contemporanei e dei successivi biografi è stato sempre unanime. Fu molto amico del Borromeo; non tenteremmo per altro nessun confronto fra i due uomini. Morì il 18 marzo 1575, a Roma, e fu sepolto in S. Maria degli Angeli presso i cartusiani. Sino alla fine i suoi rapporti con il duca di Savoia furono i migliori possibili, e sono del 1574 anche dei versi a Carlo Emanuele, figlio del duca, in obitu matris, per la morte della madre Margherita di Valois. Ma da gran tempo egli si era allontanato dai pur lunghi e fattivi anni della sua collaborazione di laico con Emanuele Filiberto: la Chiesa l’aveva tratto sempre più a sé, al duca dovevano restare il dovere e la convenienza morale e politica di essere “prudente et giudicioso” nei confronti del papa (da Roma, 11 giugno 1572: Archivio di Stato di Torino, Sezione I, Lettere di cardinali, mazzo 3).

Le testimonianze inedite dell’attività del B. sono a Torino, Archivio di Stato, Sezione I: lettere al duca di Savoia Emanuele Filiberto, 1553 e 1554 (Lettere di particolari, B, marzo 99); a Emanuele Filiberto e al primo segretario ducale Jean Fabri signore di Cly, 1560-1574 (Lettere ministri, Roma, mazzo 4); a Emanuele Filiberto, 1565 e 1572 (Lettere di cardinali, mazzo 3); ad Aosta: Archivio della Curia Vescovile (Atti sinodali di mons. Bobba; Visita pastorale di mons. G. Ferragatta, incaricato di ciò dal B., 1558-1567); Archivio del Seminario Maggiore (Lettere del Bobba, 1558 ss.); a Milano: Biblioteca Ambrosiana, lettere del B. al cardinale Carlo Borromeo, 1565-1574 (F. 105 inf., c. 641; F. 75* inf., c. 527; F. 75 inf., c. 274; F. 38 inf., c. 101; F. 91 inf., cc. 268 e 44; F. 97 inf., cc. 222, 241, 326, 370, 373, 571, 540, 551, 521, 465; F. 122 inf., cc. 321 e 334; F. 74 inf., c. 214). Del B. sono a stampa: versi: in lode di T. A. Albonesi, Introductio in chaldaicam linguam,syriacam,atque armenicam,et decem alias linguas, Pavia 1539, c. 6v; in lode del cardinale Simone Pasqua, in Io. Antonii Petramellarii Ad librum Onuphrii Panvinii de summis pontif. et s. R. E. cardinalibus a Paulo quarto ad Clementis octavi annum pontificatus octavum continuatio, Bononiae 1599, pp. 119-120; Ad Carolum Sabaudiae principem. In obitu matris, in Carmina illustrium poetarum italorum, II, Firenze 1719, pp. 255-257; Hostium quae vis potuit…, in G. Tagliotti, La genuina origine dei prodigiosi simulacri di Maria Vergine venerati da quindici secoli in Oropa ed in Crea, pp. 149-150, allegato a Terza secolare incoronazione del simulacro di M. SS. di Oropa, Ivrea 1821; lettere: a Emanuele Filiberto, da Vercelli, 7 genn. 1554, in G. Claretta, La successione di Emanuele Filiberto al trono sabaudo e la prima ristorazione della Casa di Savoia, Torino 1884, pp. 381-385; allo stesso, da Roma, 22 e 29 ag. 1561, 28 ag. 1562, 22 ott. 1566, da Aosta, 29 apr. 1565, in A. Pascal, La lotta contro la Riforma in Piemonte al tempo di Emanuele Filiberto, in Bulletin de la Société d’histoire vaudoise, avril 1929, pp. 38, 39-41, 45-46, 46-48, 53; allo stesso, da Roma, 28 ag., 4 sett., 2 ott. 1562, 14 ag. e 25 sett. 1570, 5 sett. 1572, in L. Cramer, La Seigneurie de Genève et la Maison de Savoie de 1559 à 1603, II, Genève-Paris 1912, pp. 87-88, 90, 91, 254-255, 258-259, 283; allo stesso, da Roma, 2 ag. 1566 e 25 sett. 1570, in Lettere inedite di santi, papi,principi,illustri guerrieri e letterati, a cura di L. Cibrario, Torino, 1861, pp. 379-385 e 402-403; al capitolo della cattedrale di Aosta, da Roma, 1º maggio 1568, in R. Borelli, L’attività pastorale e riformatrice del cardinale Marc’Antonio Bobba,vescovo di Aosta, in Bulletin de la Société académique religieuse et scientifique du duché d’Aoste, XL (1963), p. 89; a Emanuele Filiberto, da Milano, 6 maggio 1572, in E. Fenoil, Un père du Concile de Trente,le cardinal Bobba, Florence 1875, p. 84; Oratio ai padri conciliari a Trento, 31 genn. 1563, in Concilii Tridentini Actorum,pars sexta, a cura di E. Ehses, 2 ed., Freiburg im Breisgau 1965, pp. 372-374.

Fonti e Bibl.: Sul B., e relativamente alla sua attività, qui esaminata, sono inedite le notizie dell’Archivio di Stato di Torino, Sezione I, Protocolli ducali, vol. 181, c. 168 (154*); vol. 185, c. 15 (155*); vol. 186, c. 89 (1555); col. 224 b, c. 252 (1562); col. 225 b, cc. 75 e 206 (1565); voll. 226, c. 351 (1566); Registri lettere Corte, minute lettere del duca Emanuele Filiberto, 1558-1575; Lettere ministri,Roma, mazzo 4 (Emanuele Filiberto al B. e al segretario Gaspare Ponziglione, 1561-1574); Materie ecclesiastiche, cat. 9a, Inquisizione, mazzo I, nn. 7 e 9; Vescovado di Aosta, mazzo I, n. 14 (1565); Lettere di santi (Carlo Borromeo a Emanuele Filiberto, da Milano, 3 nov. 1565); Sezioni Riunite, Registres du Conseil des Commis du duché d’Aoste, vol. 1554-1562, ad Indicem. Si veda, ancora: Aosta, Archivio vescovile storico, Bolle sec. XVI (fasc. sul B., giugno-agosto 1557); Archivio di Stato di Torino, Sezioni Riunite, Patenti controllo finanze, voll. 1560, c. 24, e 1565, c. 66.
Per le notizie edite, vedi: A. Manno, Il patriziato subalpino, II, Firenze 1906, p. 329; G. Gulik-C. Eubel, Hierarchia catholica Medii er recentioris Aevi, III, Monasterii 1923, pp. 41 e 123; A. P. Frutaz, Le fonti per la storia della Valle d’Aosta, in Thesaurus Ecclesiarum Italiae, I, 1, Roma 1966, vedi Indice analitico; poi: Le congregazioni dei Tre Stati della Valle d’Aosta, a cura di E. Bollati, I, Torino 1877, pp. 482-532 passim, pp. 540, 554, 597, 614, 621, 690; Nunziature di Savoia, I, a cura di F. Fonzi, Roma 1960, in Fonti per la storia d’Italia, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, ad Indicem; J. Šusta, Die römische Kurie und das Konzil von Trient unter Pius IV. Aktenstücke zur geschichte des Konzils von Trient, III-IV, Wien 1911 e 1914, ad Indicem; Concilii Tridentini Diariorum,pars secunda, e partis tertiae volumen prius, a cura di S. Merkle, 2 ed., Freiburg im Breisgau 1963 e 1964, rispettivamente pp. 564-866 e 555 ss., passim; Concilii Tridentini Actorum, cit., ad Indicem. Per alcuni versi commemorativi del B. v., infine, Uberti Folietae Clarorum ligurum elogia, Romae 1577, p. 259v. Cfr. sul B. ancora, oltre alle opere citate del Fenoil, del Claretta, del Cramer, del Pascal, della Borelli e del Frutaz; A. Rossotti, Syllabus scriptorum Pedemontii, Mondovì 1667, pp. 414-415; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d’Italia, II, 3, Brescia 1762, pp. 1308-1309; C. Tenivelli, Biografia piemontese, decade seconda, Torino 1785, pp. 235-252; S. Pallavicino, Istoria del Concilio di Trento, IV-V, a cura di Fr. A. Zaccaria, Faenza 1795-1796, rispettivamente pp. 401 e 103, 293; P. Sarpi, Istoria del Concilio tridentino, a cura di G. Gambarin, Bari 1935, III, pp. 77, 130-132, 189, 226, 241, 282, 367, 401; G. Morozzo, Elogio istorico di M. A. B…, Torino 1799; G. De Gregory, Istoria della vercellese letteratura ed arti, II, Torino 1820, pp. 88-90; G. Casalis, Dizionario geograficostoricostatisticocommerciale degli Stati di S. M. il re di Sardegna, IX, Torino 1841, pp. 906-908; J.-A. Duc, Histoire de l’Eglise d’Aoste, VI, Châtel St.-Denis 1911, pp. s. 136; F. Ruffini, La politica ecclesiastica, in Emanuele Filiberto, Torino 1928, pp. 407-424, passim; P. Egidi, Emanuele Filiberto, II (1559-1580), Torino 1928, pp. 46, 160, 169, 217, 228, 237; C. De Antonio, La Valle di Aosta ed Emanuele Filiberto, in Lo Stato sabaudo al tempo di Emanuele Filiberto, Torino 1928, I, pp. 188-199 e 223-225; G. Ciccolini, Emanuele Filiberto e il Concilio di Trento, in Studi trentini di scienze storiche, IX (1928), pp. 8-13 dell’estr.; L. Jadin, Bobba (MarcoAntonio), in Dict. d’Hist. et de Géogr. Ecclés., IX, Paris 1937, coll. 274-275; L. Prosdocimi, Il progetto di “riforma dei principial Concilio di Trento (1563), in Aevum, XIII (1939), pp. 3-24; L. von Pastor, Storia dei papi, VII-IX, Roma 1950-1955, ad Indicem; M. Grosso-M. F. Mellano, La Controriforma nella arcidiocesi di Torino (1558-1610), Città del Vaticano 1957, I, pp. 66, 78, 104, 158; II, p. 155; M. Grosso, La Controriforma nella Valle d’Aosta nell’età di Emanuele Filiberto e nei primi anni di governo di Carlo Emanuele I, in La Valle d’Aosta. Relazioni e comunicazioni al XXXI Congresso stor. subalpino di Aosta, 9-11 sett. 1956, Torino 1959, I, pp. 457-464; L. Marini, La Valle d’Aosta fra Savoia e Piemonte (1601-1730), ibid., II, pp. 562 ss., sul tempo di Emanuele Filiberto; H. Jedin, La conclusione del Concilio di Trento (1562-1563). Uno sguardo retrospettivo a quattro secoli di distanza, Roma 1964; J. B. De Tillier, Historique de la Vallée d’Aoste, Aosta 1966, pp. 153, 222, 375, 377-379, 384, 406, 428.