Litta Biumi Pompeo

A cura di Pierluigi Piano,

Anton Ferrante Boschetti nel 1930 pubblicava a Modena I Cataloghi dell’opera di Pompeo Litta “Famiglie celebri italiane”. Note – Appunti – Notizie. La breve opera ricostruisce la vita del conte Pompeo Litta Biumi e cerca di individuare la genesi dell’opera maggiore dello storico milanese: «Storia delle Famiglie Celebri di Italia» completando il suo scritto con:

–         Catalogo delle Famiglie, per ordine alfabetico, con riferimento alle dispense;

–         Catalogo delle Famiglie, secondo l’ordine delle dispense e dell’opera nella quale vennero pubblicate.

Il conte Pompeo Litta Biumi nacque a Milano il 24 settembre 1781 dal conte Carlo Matteo e da Atonia di Carlo Brentano. Fu educato prima nel Collegio dei Nobili della città ambrosiana, sotto la direzione dei PP. Barnabiti, passò poi presso il collegio Gallio di Como, diretto dai PP. Somaschi, che lasciò nel 1797.  Giovane introverso e taciturno dedicò molto del suo tempo alla lettura. Fu ammesso nel 1802 nell’amministrazione della Repubblica Italiana, prima, soprannumerario al Ministero dell’Interno, e poi, come Segretario aggiunto presso la Consulta di Stato. Poco tempo durò il suo incarico; nel 1805 si arruolò come semplice cannoniere. Scrive Boschetti: “vi andò e stette tanto volentieri, che parve preferire la carriera delle armi a quella del letterato. Francesco Melzi d’Eril, poi duca di Lodi, che, come vice presidente della Repubblica, governava lo Stato, fece mettere un elogio del Litta sul Giornale Italiano, perché era il primo nobile che si arruolasse al servizio, non profittando del privilegio di mettervi un supplente. Fu nominato maresciallo d’alloggio in capo. Appassionato dell’artiglieria ed entrato in Francia con la Divisione italiana, si diede allo studio di questa specialità nelle scuole di Fère in Picardia e di Strasburgo in Alsazia. Addetto alla Guardia Imperiale, seguì Bonaparte alla guerra contro l’Austria, si trovò al combattimento di Tonarvesth, all’assedio d’Ulma, alla battaglia d’Austerlitz. Nel 1806 Napoleone lo promosse luogotenente nei Veliti, e tre mesi dopo, tenente in secondo nell’artiglieria a cavallo della Guardia Reale.”[1]

“Venuto poi in Italia” – prosegue Boschetti – “ritornò all’armata nella campagna del 1809; fu al fatto d’armi di San Michele di Verona e ad altri avvenimenti fino alla battaglia di Raab, ma più si coperse di gloria nella giornata campale di Wagram, ove gli fu appesa sul petto una delle cinque decorazioni della Legion d’onore. Nominato capitano di seconda classe nel reggimento di artiglieria a piedi del Regno d’Italia, fu mandato all’arsenale di Ancona. Colà ebbe in seguito l’incarico di organizzare il Corpo d’artiglieria destinato alla difesa delle coste contro gli Inglesi, comandati dal Maresciallo Mac Donald, dalle valli di Comacchio al porto d’Ascoli; e di quel Corpo tenne il Comando col grado di maggiore; alla fine del 1813 era ancora in Ancona, ove nei fatti di guerra di quella città, assodò la fama del suo valore. Rimasto nell’anno seguente sciolto dal servizio, svanita in pari tempo ogni speranza di fortuna per la bandiera italiana e sfiduciato per l’eclissarsi di Napoleone, ritornò tra le pareti domestiche cercando di dimenticare tra i suoi libri le infide illusioni di oltre dieci anni”[2].

“Tornò allora a Milano e non rimase certo indenne di indizi patriottici: le distese finche dei Registri delle risultanze processuali dei Carbonari ne fanno ampia fede: e il futuro biografo ne ha buona guida.” [3]

Sin dall’età di vent’anni aveva iniziato a studiare le maggiori casate italiane, riprese quel lavoro, che porta il segno del suo nome e della sua stessa vita, Storia delle famiglie celebri d’Italia.

Libero dagli impegni militari, viaggiò per tutta Italia alla ricerca delle fonti per poter ricostruire la storia delle Famiglie italiane sino al 1829. L’opera immane impegnò buona parte delle sue forze, ma non gli impedì di far parte di deputazioni, commissioni e consigli.

Vi attese (il primo saggio vide la luce nel 1819) per tutti gli anni che seguirono la restaurazione in Lombardia fino al 1848. Allora, dagli studi passò all’azione.

“Nel 1848 ebbe quasi ad interrompere l’utile lavoro, poiché durante le memorande giornate di Milano, fu chiamato a far parte del Governo Provvisorio della Lombardia e a presiedere alle cose di guerra, fidando i colleghi nella pratica militare di lui. Qui si guadagnò quella invidiabile popolarità, che era rimasta ignota, vivendo tra i libri, alla maggior parte dei suoi concittadini. Ma piombando Milano nell’anarchia, fu principal  cagione che gli Austriaci, usciti nel marzo, potessero rientrare trionfanti il 6 agosto. Pompeo Litta, Luigi Anelli, e Cesare Cantù, come parte del governo, protestarono contro i patti di Carlo Alberto che due giorni prima aveva trattato col Radetzky la resa di Milano” [4].

Dovette mettere in salvo la moglie e i figli nelle proprietà possedute a Limido nel Comasco. Dove, dopo poco li raggiunse.

“Perseguitato” – scrive il Boschetti – “dalla polizia per il suo ardente patriottismo, e per ordine del governo militare, fu cancellato dall’Albo delle Accademie governative e privato del titolo e della pensione di membro dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere. Si rassegnò dignitosamente ed ebbe spontanee dimostrazioni di simpatia. Alla fine dell’anno rientrò in Milano. Libero da pubblici impegni si rinchiuse ne’ suoi stanzoni al pianterreno di via Cappuccio, da patrizio pertinacemente laborioso e a servizio dei patrî studi . Gli stanzoni guardavano verso il giardino e «colà se ne stava nascosto non piacendogli di vedere e di udire nella strada la molesta provocazione della sciabola straniera e di una lingua aspra che era quella di un aspro e giustificato comando. E stando colà fuori mano, interrogava il passato per sentire meno l’onta del presente». Qui passò quarant’anni nella grande fatica di vagliar nomi, verificar date, colmare lacune, leggere cronache e pergamene.”[5]

Morì a Milano il 17 agosto 1852, fu sepolto nell’Oratorio della Beata Vergine in Lurago Marinone, sulla sua tomba fu fatto porre un busto marmoreo, scolpito da Vincenzo Vela, ora scomparso.

Carlo Dozzi, nelle sue Note Azzurre, alla nota 1702, così ce lo descrive:

“Il conte Pompeo Litta, dilettante pittore, che fa, come dice la S.ra Gonfalonieri, delle magnifiche cornici a’ suoi quadri, invita un giorno a pranzo Cesare Gonfalonieri – per dargli pane raffermo, cacio avanzato nelle trappole, manzo buono a far scarpe – vino senz’uva, e quattro zaccherelle (mandorle spaccherelle) e 6 noci. Sulla porta intanto della sala da pranzo leggevasi scritto a grandi caratteri: E se talor la vita parti amara – Pensa a Bokara (dove il Litta col Meazza e il Gavazzi rimase un anno prigioniero del khan, molto “khan”) – E Gonfalonieri battendo sulla spalla del conte Pompeo… Dovresti cambiar, sai, l’iscrizione – e metterci: E se Amara talor parti la vita – Pensa al pranzo del Litta”.

“Il giorno dopo la sua morte il giornale «L’Epoca», riferendo sulla dolorosa notizia [della sua morte], chiudeva l’annuncio con queste parole: «Noi invidiamo i tempi e la nazione in cui tutti i cittadini pigliano il lutto, quando si spegne un grand’uomo”[6].

“Pompeo Litta fu Cavaliere della Legion d’onore, Commendatore dell’ordine Mauriziano e socio delle più illustri Accademie e Società scientifiche e letterarie italiane e straniere. Accettò con gratitudine il titolo di Socio d’onore dell’Accademia di Belle Arti di Milano, conferitogli nel 1834 e la dignità di Consigliere Straordinario che lo chiamò nel 1834 a sedere nel Consiglio Accademico. L’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, nel 1839, lo aggregò a sé in qualità di membro effettivo pensionato.

Ma egli non fece pompa di tali onori. I documenti coi quali gli erano conferiti, soleva il Litta tener custodito in una cartella sopra la quale aveva scritto: Vanitas vanitatum, e, pochi giorni prima di lasciare la terra, chiamato al letto il figlio Balzarono, gli consegnò quelle carte e, accennandogli al motto, soggiunse «Ricordati di questa massima».”[7]

Oltre alla monumentale opera Famiglie celebri, Pompeo Litta fece pubblicare a Milano nel 1821 da Paolo Emilio Giusti, la Vita di Pier Luigi Farnese, duca di Parma descritta dal P. Affò, premettendole un arguto proemio, e nel 1833, fece stampare pure in Milano dal Ferrario, la Vita di Giovanni de’ medici, detto delle Bande Nere, dettata da Gian Girolamo Rossi vescovo di Pavia, e per questa scrisse poche righe di prefazione.

Il Litta ebbe pure parte alla pubblicazione dell’Archivio Storico Italiano, di cui fu attivo cooperatore. Per sua cura nel 1842 comparvero nel terzo volume della raccolta, le Cronache milanesi di Giovan Pietro Gagnola, di Giovanni Andrea Prato e di Giovan Marco Burigozzo e, osserva il Passerini, se non si vedono precedute da una sua prefazione, non per questo trascurò di arricchirle di dotte e pregevoli annotazioni.

Si trova pure il suo nome in alcune biografie di Estensi in un «Album Estense con disegni originali di G. Coen, C. Grand Didier e M.Doyen, a corredo della Storia di Ferrara di Antonio Frizzi, tradotto in francese da Antonio Luyrard».[8]

Al Litta si deve la prima guida dell’Archivio Governativo, sotto la denominazione di Archivio Generale dello Stato, nel 1844.

“Gli studi di genealogia, al momento (1804) in cui il Litta li iniziò, risentivano di quell’eco revisionista che le riforme illuminate avevano creato nella Lombardia Austriaca con la costituzione del Tribunale Araldico; e, dopo il maggio del 1796, del gran rifiuto giacobino, ostentato da molti nobili lombardi.

“   Poteva, pertanto, sembrare che tali studi mancavano del tempo propizio e d’una propiziata opinione pubblica; invero, pur essi rientravano, allora in Milano, in quel programma di ricerca storica, quale si andava spiegando ad opera degli archivisti nazionali: Luigi Bossi, prefetto generale degli archivi e delle biblioteche, e di Michele Daverio, archivista nazionale, con l’autorevole patrocinio di Francesco Melzi d’Eril, vicepresidente della Repubblica Italiana, dopo che il maggior archivista, diplomatista e storico milanese, Angelo Fumagalli, ex abate cistercense, era stato assunto all’onore dell’Istituto Nazionale, benemerente con l’edizione (1802) Delle Istituzioni diplomatiche, e onorato ancora, dopo la morte, con l’edizione postuma (1805) del Codice Diplomatico Santambrosiano; mentre che il Bossi attendeva alla costituzione dell’Archivio Diplomatico «uno dei più grandi e interessanti d’Europa»; e, intanto che il Daverio dava alla luce il frutto dell’organizzazione dell’Archivio Visconteo-sforzesco: così congiungendo, nella conservazione e valorizzazione delle fonti diplomatiche dell’Archivio Nazionale, il medioevo e il rinascimento.

“   Chi erano stati i protagonisti di tanta e tale storia nel corso di un millennio all’incirca, dalla caduta dell’Impero Romano alla prima generazione del Cinquecento? Ed oltre: nel corso di questo secolo, che vide fatti e fattori nuovi nella lotta delle preponderanze straniere in Italia in una nuova società (la mistione romana-longobarda si ripeteva in quella italo-ispana: e la suggestione storiografica era bene alimentata!), che dominerà col suo patriziato il Seicento e anche il Settecento? E fuori dell’antico Ducato di Milano quante e qual’erano state le grandi famiglie degne di celebrità? Ricercandone le vicende e ricostruendone gli alberi genealogici significava illustrare gli annali stessi della storia d’Italia, validamente; ma fuori dalle favole, dalle mitiche immagini, dai falsi e dalle falsificazioni, bisognava interrogare le fonti: gli archivi in primo luogo.[9]

Il Litta alla sua Guida fece precedere i versi del Parini da La gratitudine:

“Vedi i portici e gli atrii ove conduce

Il fervido pensiere;

E le di libri altere

Pareti, che del vero apron la luce…

E quelle glorie alla città rivela,

Ch’ella a sé stessa ingiuriosa cela”

E scrisse: «Perché nessuno rimanga deluso cercando ciò che non v’è, intendasi a bella prima che gli archivii di Milano sono disposti agli usi d’uffizio; no per lusso, no per studii. Aggiungiamo che la città fu assai volte distrutta, assai altre invasa da stranieri; talchè a Madrid, a Vienna, a Parigi è a cercare la miglior parte delle nostre ricchezze diplomatiche. Quanto a quelle che ci lasciarono i molti eruditi del secolo passato, quali Giulini, Muratori, Sassi, Argelati, i socii palatini, le spillarono e ne trassero copiosa messe, non però così che non abbiano lasciato assaissimo da raggranellare a chi volesse e potesse cercarvi la storia d’un paese, che fu gran tempo centro alla politica di tutta Italia.”[10]

Scrive ancora Natale: “Senonché, quando Litta, dopo la decennale attività militare, al tempo della restaurazione, riprese il suo lavoro, gli archivi milanesi avevano lo scopo e la qualifica ch’egli denunciò, pur a distanza di tempo, come sopra.

“   Pur non di meno, nella sullodata relazione abbiamo per le stampe il primo quadro degli archivi milanesi: 1. Archivio Civico; 2. Archivio generale dello Stato; 3. Archivio del Fondo di Religione; 4. Archivio Diplomatico; 5. Archivio di deposito giudiziario; 6. Archivio del Debito pubblico; 7. Archivio del Ministero della Guerra; 8. Archivio degli Affari Esteri; 9. Archivio di Finanza; 10. Archivio Notarile; 11. Archivio dell’Ospedale; 12 Archivio dei Luoghi pii elemosinieri; 13. Archivio della Curia.

“   Prima di trattare di ogni singolo archivio, il Litta avverte il lettore che non intende dare un inventario di ognuno di essi archivi, né additare le singole ricchezze, dicendosi soltanto pago di «introdurre nelle difficili soglie».

“   E queste «difficili soglie» che sanno di reminiscenza pariniana, e che, perciò, hanno dell’amaro ironico il sapore d’un rimbrotto non altrimenti possibile ai custodi delle soglie stesse e una cauta avvertenza a coloro che avessero intenzione di bussare alle dure porte, ci danno il tono del diniego a penetrarvi: la Restaurazione in Lombardia finse d’ignorare (e ingannò se stessa) la conquistata dignità degli archivi nel periodo napoleonico e la studiosa destinazione di essi.

“    Gli uomini che agli archivi furono preposti, nell’uno e nell’altro periodo, erano di diversa formazione e mentalità, non solo, ma pur agivano in una diversa, per così dire, atmosfera politica. Nel periodo napoleonico, Luigi Bossi e Michele Daverio avevano degli archivi quel concetto culto al quale li destinavano nella conservazione ed organizzazione, in ragione della loro visione per la valorizzazione di fondi documentari irreversibili, come fonti della storia patria.

“   (Si ricordi che per entrambi il patriottismo giacobino fu la fonte, a sua volta, della loro conversione laica). Ma uomini come Bartolomeo Sambrunico e Luca Peroni, archivisti, che pur meritano rispetto per l’attività che svolsero con opera diuturna, mancarono di tale fervido substrato e di tanta ideale aspirazione: in verità, essi erano aulici funzionari del «regio servizio» e seppero stare sotto il lombardo Senato Politico, che soprintendeva su tutto e considerava gli archivi come patrimonio regio sotto la specie di realità fiscale.

“   Non fu negata nel 1825 all’ing. Federico Scotti la possibilità di riprodurre per scopo di studio alcune pergamene dell’Archivio Diplomatico? Il parere negativo all’istanza dello Scotti, già espresso dal Peroni e fatto proprio dal Senato Politico, non poteva avere altro effetto: la repulsa imperiale n’era una conseguenza.

“   Dal Peroni al Viglezzi il passo sarà notevole: l’Archivio Diplomatico sarà aperto alle ricerche”[11].

Tralasciamo questo accenno doveroso alla Guida, che permette di capire quante e quali difficoltà dovette incontrare il Litta nella raccolta della documentazione necessario ad illustrare le sue Tavole.

Vogliamo solo riportare la chiusa del suo saggio: “Non chiuderemo questi accenni senza rammemorare che da Milano partì il primo esempio in grande di pubblicare documenti storici, e che una società di patrizii ben impiegare in ciò una tenue parte delle sue entrate. L’esempio valse, e tutte omai le altre parti d’Italia costituirono società per la ricerca e la pubblicazione delle diplomatiche ricchezze. La difficoltà di conservarle è maggiore qui che altrove, e maggiore in conseguenza il patrio dovere di accertarle e pubblicarle.”[12]

“   Possiamo credere che l’epilogo del Litta” – commenta Natale – “ abbia avuto risonanza, o meglio, che, in concreto, abbia dato alcun frutto?

“   Crediamo di essere nel vero, se rispondiamo positivamente.

“   In verità, già sotto la direzione di Giuseppe Viglezzi, successore del Peroni, gli archivi vennero aperti agli studi.

“   Nel Governativo, durante il 1839, il principe di Lichnowschy studiò i carteggi degli ambasciatori sforzeschi, relativi all’impero; e, nel ’40, F. Papencord ricercò (sebbene invano9 la corrispondenza tra i Visconti e Cola di Rienzo.

“   Nel Diplomatico, per primo il Pertz trascrisse i diplomi imperiali e regi da Carlo Magno ad Arduino, seguito dal Böhmer (1837) che ne continuò la trascrizione da Arduino in avanti, con la collaborazione degli archivisti milanesi, ai quali consigliò il modello del suo regesto, ritornandovi e soffermandosi ancora nel corso del 1840, dopo che (1839) F. von Raumer aveva trascritto i diplomi dei sovrani di Casa di Svevia.

“   Questa cronaca di ricerche storiche negli archivi milanesi la ricorda, con qualche compiacimento, Luigi Osio: gli valeva quasi come l’inaugurale principio del suo programma di aprire gli archivi alle ricerche: farne il fondamento degli studi storici. Così ricordò il sorgere della Scuola (18389, ad opera del viceré, l’arciduca Ranieri, mentre si avviavano le indagini nel Diplomatico per i Monumenta Germanie Historica, e nel Governativo s’iniziava l’esplorazione del Visconteo – sforzesco.

“  Certamente, uno studioso come il Litta non poteva ignorare questo primo incontro tra i ricercatori tedeschi e gli Archivisti milanesi: perché ne tacque la collaborazione?

“   Non è difficile rispondere a chi conosca il giovane napoleonico, dagli uffici alla milizia, il patriota indiziato della restaurazione, il futuro ministro della Guerra del Governo Provvisorio del Quarantotto. È chiaro che lo spirito antitedesco, che dominò gli animi e i motivi storiografici della restaurazione in Lombardia, è presente nella vita e nell’opera del Litta. D’altra parte, il suo interesse storico supera i limiti medievali e discende e si diffonde per i rami genealogici nell’età moderna: donde il suo interesse per le fonti archivistiche moderne, soprattutto per i fondi già concentrati nel Governativo”[13].

Il Litta stesso dice che a vent’anni aveva cominciato a pensare alla sua grande Opera, ma come si sviluppasse in seguito quest’idea, lo narra in una lettera al Passerini del 25 giugno 1843: «… Non mi parli di talento perché a vent’anni io ero una zucca. Il mio talento scaturì dalle mie spalle …; soldato per tanti anni, non perdei per questo giammai il mio tempo, ed anzi convivendo con i francesi, ebbi grandi occasioni di parlare di genealogie, mentre essi sono tutti aristocratici. Figli di una repubblica, non parlavano che dei loro antenati e della grandezza delle loro case; sprezzavano  sempre le italiane. Io non ero allora al caso di poter loro rispondere; cosicché con mio grave dispiacere e vergogna ero costretto a tacermi. Ciò mi punse sul vivo e mi spronò ad addentrarmi nelle cose degli avi nostri. Così nacque a poco a poco la mia storia delle illustri famiglie…»[14].

“  Una caduta da cavallo” – scrive il Boschetti – “ lo rese immobile per qualche tempo all’ospedale di Pavia. Ivi fece le prime letture genealogiche, togliendo a prestito da amici il maggior numero di pubblicazioni che trattavano di questa materia. In seguito, non fidandosi di certi panegirici, volle conoscere la Storia delle famiglie dai libri e si diede a leggere quanti scrittori noveri l’Italia di materie storiche, di tutto facendo diligentissimo spoglio, Nelle sue peregrinazioni, anche militari, cercava tutti i modi per consultare cronache, pergamene, manoscritti, per esaminare monumenti, oggetti d’arte, di tutto prendendo memoria. Viaggiò poi l’Italia convinto che meglio non si può raccogliere i fasti di una casata, se non nel luogo stesso ov’essa ebbe la culla. Ciò gli diede modo di stringere relazioni con persone dotte ed erudite, senza il soccorso delle quali gli sarebbe riuscito impossibile procedere al lavoro grandioso.”[15]

Prosegue ancora il Boschetti: «Chi è appena un po’ conoscitore di simili studî, sa quanto sia lunga e di grande pazienza la ricerca e la riunione delle notizie riguardanti i personaggi di una famiglia. Ora, senza l’aiuto datogli da estranei, non si potrebbe comprendere come in circa quarant’anni egli avesse potuto pubblicare centotredici famiglie, quando ad altri occorrono alle volte parecchi anni per comporne una sola”[16].

L’intento del Litta non fu quello di “adulare i potenti o procurarne vane ambizioni; ma solo di rendere un utile servizio alla Storia della Nazione”[17].

La verità sta alla base della ricerca storica del nobile milanese, “manifestandola in tutta la sua purezza; e, poco curandosi se non piacesse, non si impose silenzio verso chi si rese famoso per sceleratezze, né volle tradita la Storia se una dinastia ebbe origini dalla plebe, e neppure cercò nascondere quando un sangue purissimo venne adulterato con ibride discendenze”.

“Le sue dispense venivano poi vendute a chi le voleva, ma non patteggiava cogli interessati alla gloria degli avi; e quando ebbe scritto i Colonna, regalò a uno di essi un intero esemplare dell’Opera e dodici esemplari della famiglia Colonna. Devesi pure a suo prudente riserbo se studiandoi su tante genealogie, mai pubblicò quella della propria famiglia, che pure era tra le più nobili e reputate d’Italia e fra le prime e di proverbiale ricchezza a Milano”.

Il suo nobile sentire e la sua rettitudine morale, come ebbe a scrivere il Passerini, lo portarono a mettere “in evidenza uomini e fatti coi criteri del loro tempo e non con quelli dell’epoca in cui visse lo scrittore, e Litta, abituato a giudicare i nobili viventi dall’undicesimo al dodicesimo secolo, studiò le idee, le passioni, i vizii e le virtù dei tempi in cui essi vissero, tenendo conto delle circostanze di famiglia, di fazione, di patria. Ma non perdonò a coloro che della patria stessa fecero mercato, bollando di risentite parole, ad esempio, gli ultimi Sforza, nonché Giangiacomo Trivulzio e Antoniotto Adorno. Né avrebbe potuto fare diversamente colui che a proprie spese aveva provato la umiliazione del dominio straniero nel proprio paese, si chiamasse poi esso francese, spagnolo, od austriaco. E la troppa franchezza gli procurò disgusti perfino con Carlo Alberto, il quale non avrebbe desiderato che così duramente venisse esposta la insipienza di governo degli ultimi tre principi che lo precedettero sul trono”[18].

Il primo fascicolo dell’Opera uscì nel 1819 con la famiglia degli Attendolo Sforza di Cotignola, composto di sei tavole di testo e otto e mezza di illustrazioni. Vi era accluso un foglio supplementare per il frontespizio: «Famiglie Celebri di Italia, Milano, MDCCCXIX, presso Paolo Emilio Giusti, stampatore, libraio e fonditore nella contrada di S. Margherita ai num. 1118 e 1120». Non compariva il nome dell’autore. Si firmava invece a fondo della terza pagine dell’Avviso. Scriveva: «Io mi propongo di pubblicare le memorie delle principali Famiglie d’Italia. Eccone un saggio nel primo fascicolo che contiene la famiglia degli Attendolo Sforza: potrà ciascuno ravvisarvi il metodo che mi sono prefisso: a me sembrò per simili studi il più acconcio. Ho voluto arricchire queste mie memorie colla Numismatica. I rapporti di questa scienza colla Storia e l’opportunità di vivere in una Città amica dei buoni studi, mi hanno incoraggiato a non trascurare un oggetto, che per la sua importanza poteva contribuire a rendere le mie fatiche meno incomplete». “Proseguiva dicendo che animato da affettuoso trasporto per le Belle Arti e per conservare memoria delle cose nostre, aveva procurato di unire i più distinti monumenti che alle Famiglie appartengono, giacché nelle acerbità delle passate vicende, senza alcun rispetto, molti ne erano stati demoliti e dispersi. Aggiungeva che i suoi studî avevano particolarmente di vista d’illustrare la Storia Nazionale supplendo ad un’opera che gli sembrava mancasse in Italia, e che è dovere di buon cittadino applicarsi alla Storia della Nazione che gli è madre. «Io adempirò con tripudio all’ufficio riconoscente e pio di onorare la memoria di coloro che per singolare altezza d’animo si sono renduti il modello delle nostre azioni: possano le opere loro essere sempre sotto gli occhi nostri: l’eloquenza del buon esempio è ancor più efficace dello spavento della legge. Ma parlerò con austerità dei malvagi, perché sia per sempre loro tolto il conforto, che la lunghezza del tempo abbia a scancellare giammai la macchia delle loro ribalderia. Tale è il dovere di chiunque si mette a scrivere Storia». Nella Nota a’ piedi dell’avviso si leggeva: «La presente opera si pubblicherà in fascicoli. Ogni fascicolo conterrà una o più famiglie senza ordine di precedenza. Le medaglie sono tutte copiate nei Musei, e nella loro vera grandezza. I monumenti sono tutti copiati dal vero e si danno anche separati. Non si forma alcuna associazione. Un autore non deve essere mai da alcuna legge circoscritto»[19].

L’Opera costò al Litta una cifra immane. Le vendite delle dispense non supplirono mai alle spese materiali della pubblicazione. Si pensi che “persino alcune Biblioteche rifiutarono l’Opera; il fiero autore che, malgrado mille ostacoli, andava avanti in conseguenza della sua costanza, non capitolò con nessuno, tranne che coi librai, come scriveva al Passerini, nel 1842: «La mia opera è mezzo invenduta e la do ai librai a quel prezzo che vogliono, ma non la vendo mai a famiglie delle quali scrivo la Storia».

“Agli Attendolo seguirono altre centododici Famiglie fino alla morte del Litta, in centotrentacinque dispense e cioè alla seconda parte dei Malaspina, uscita nel 1852”[20].

Nel fascicolo LXIII, la dispensa 117, tratta dei Monferrato (Marchesi di) e dei Paleologo Marchesi di Monferrato. Fu pubblicata nel 1847 a Milano dalla Tipografia del Dott. Giulio Ferrario. Si compone di 6 tavole di testo per i Monferrato e di 3 tavole per i Paleologi, seguita da una tavola di illustrazioni. Uscì per il prezzo originario di 10 Lire italiane.

I Monferrato e i Paloeologo portano il numero progressivo delle Famiglie: n. 92 e  n. 93.

Non entriamo nel merito dei pregi, difetti, stile e metodo seguiti dal Litta, vorremmo solo citare quanto anni dopo ebbe a scrivere Giovanni Vitani allo storico locale Carlo Massimo Rota, sullo storico milanese Giulini: “«Il Rota porta una infinità di osservazioni originali nuove e tutte fondate su documenti; tra esse alcune saranno errate, non vuol dire niente; anche il Mabillon risulta oggi pieno di errori, eppure fondò la Paleografia e la Diplomatica Latina» Perché questa è la mia opinione che chi, dopo aver studiato, ha qualche cosa da dire, lo dica – e sia quindi messo in grado di dirla. Il Giulini con tutti i suoi errori è ancora colui che suscita la storia di Milano; sarebbe già grandemente meritevole, anche se gli errori fossero di più, perché egli è il primo che sul serio si applicò a studiare «in capite» i documenti e a farli conoscere per la storia di Milano; colla sua autorità qualche volta oggi è perfino un inciampo, ma il Giulini resta sempre il Giulini, anche se domani uno rifacesse tutto con risultati opposti”[21].

Potremmo lo stesso dire di Pompeo Litta, pur con alcuni suoi errori è imprescindibile per la Storia d’Italia.


[1] Anton Ferrante Boschetti, I Cataloghi dell’Opera di Pompeo Litta “Famiglie Celebri Italiane”. Note – appunti – notizie, Sala Bolognese, Arnaldo Forni 1977, ristampa anastatica dell’edizione di Modena 1930, p. 5.

[2] Boschetti, I Cataloghi dell’Opera di Pompeo Litta… op. cit., pp. 5 – 6.

[3] Alfio R. Natale, L’Archivio di Stato di Milano. Manuale storico – archivistico, I. Guide e cronache dell’Ottocento, Milano, Cisalpino – La Goliardica 1976, Introduzione, p. 6.

[4] Boschetti, I Cataloghi dell’Opera di Pompeo Litta …, op. cit., p. 6.

[5] Boschetti, I Cataloghi dell’Opera di Pompeo Litta …, op. cit., p. 7.

[6] Boschetti, I Cataloghi dell’Opera di Pompeo Litta …, op. cit., p. 8.

[7] Ibidem.

[8] Boschetti, I Cataloghi dell’Opera di Pompeo Litta …, op. cit., p. 9.

[9] Natale, Guide e cronache dell’Ottocento…op. cit., pp. 6 – 8.

[10] Pompeo Litta, Archivi, in Natale, Guide e cronache dell’Ottocento… op. cit., pp. 161 – 173, in particolare p. 163.

[11] Natale, Guide e cronache dell’Ottocento… op. cit., pp. 8 – 9.

[12] Pompeo Litta, Archivi, op. cit., p. 173.

[13] Natale, Guide e cronache dell’Ottocento… op. cit., pp. 18 – 19.

[14] Boschetti, I Cataloghi dell’Opera di Pompeo Litta …, op. cit., p. 11, cfr. anche L. Passerini, Pompeo Litta – Necrologio, <Archivio Storico