Castellari Bernardino
seu Castellaro, Bernardino de la Barba, vescovo di Casale Monferrato (13 gen. 1525 – nov. 1529; 6 marzo 1531 – 27 giugno 1546).
A cura di Pierluigi Piano.
Liberamente tratto da A. Foa, voce Castellari (Castellaro), Bernardino (Bernardino della Barba), in Dizionario Bibliografico degli Italiani, vol. 21 (Caruso – Castelnuovo), Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1978, pp. 652 – 656.
Bernardino Castellari nacque a Viarigi nel Monferrato, da nobile famiglia nella seconda metà del XV secolo. Fu avviato alla carriera ecclesiastica e fruì della protezione dei Paleologi, marchesi di Monferrato. I Paleologi, sul finire del Quattrocento, avevano annoverato nel collegio cardinalizio un loro congiunto, il cardinale Teodoro di Monferrato (1467 – 1484) ed erano imparentati con la famiglia dei Della Rovere, dalla quale uscirono i Pontefici: Sisto IV e Giulio II. Il Castellari entrò nell’intimità del cardinale Giulio de’ Medici, di cui divenne servitore e confidente «in cose segretissime et importantissime», come amò vantarsi egli stesso in seguito. Con l’elezione del nipote di Leone X, Giuliano de’ Medici, al pontificato, il 19 novembre 1523, il Castellari cominciò a svolgere un ruolo non secondario nelle complesse vicende che portarono alla lega di Cognac e al Sacco di Roma. Pochi giorni dopo l’elezione di Clemente VII, infatti, l’8 dicembre 1523, il Castellari, divenuto camerlengo pontificio, fu inviato in Spagna con il compito di comunicare ufficialmente all’imperatore la notizia dell’assunzione di Clemente VII al pontificato e di esporgli contemporaneamente i motivi per cui il papa non voleva farsi coinvolgere nella guerra contro la Francia: era latore di quelle proposte di mediazione di Clemente VII nella guerra tra Francia e Impero che furono considerate da Carlo V come un vero e proprio tradimento da parte di chi era stato, anche, una sua creatura.
Dopo essersi incontrato con il Lannoy a Milano, il Castellari giungeva a Burgos il 24 marzo 1524, dove era ricevuto freddamente dall’imperatore, Carlo V, e da dove ripartiva quasi subito per l’Italia, non senza incontrarsi sulla strada del ritorno con Francesco I. La sua missione s’intrecciava, quindi, con quella più famosa, anche se non più fortunata, dello Schömberg, e come quella si risolveva in un nulla di fatto, almeno per quanto riguardava i rapporti con l’Impero. «Dice questo di più – commentava Baldassarre Castiglione al ritorno del Castellari – che il Re di Francia gli ha detto, ch’egli si sente molto obbligato a N. Signore, perché essendosi S. Santità, mentre era Cardinale stato grandissimo inimico, e tanto che Sua Maestà conosce aver ricevuto da S. Santità tutti li danni che ha patito in Italia, ora che è fatto Papa si è portato modestissimamente, e senza mostrargli inimicizia alcuna, tanto più essendogli Sua Maestà stata contrarissima, e fatto ciò che poteva, acciocché non fosse Papa. Hagli ancor imposto, che debba dire a Sua Santità, che non tiene un conto al mondo, né fa caso alcuno di questo esercito Cesareo, che mostra voler passare in Francia, e giura che per tutto il mese di Luglio avrà trentamila fanti e due mila lance, e delibera venir dritto in Italia…» (Lettere…, I, p. 126). Così il Castellari, già prima della missione dell’Aleandro presso il re di Francia, era latore al pontefice di chiare, anche se vagamente minacciose, proposte di alleanza da parte di Francesco I.
Poco dopo il suo ritorno a Roma, nel luglio del 1524, il Castellari fu immediatamente inviato a Milano a sollecitare il duca in favore di Giovanni dalle Bande Nere; durante il viaggio continuò la sua azione diplomatica incontrandosi a lungo con l’inviato dell’imperatore in Italia, il de La Roche, in viaggio per Roma. Nell’autunno del 1524 troviamo il Castellari nunzio pontificio al campo imperiale in Lombardia, dove lo raggiunge come suo segretario il siciliano Gherardo Spatafora, di cui restano numerosi dispacci al Ghiberti. Il Castellari era al campo imperale, quando il 13 gennaio 1525, ottenne una prima ricompensa per la sua attività diplomatica con la nomina a vescovo di Casale, carica vacante per la rinunzia di Gian Giorgio Paleologo.
Dopo quattro anni, nel 1529, il Castellari avrebbe rinunciato il vescovato a favore di Ippolito de’ Medici, con diritto di regresso, ritornandovi poi nel 1531. Sembra che le cure della diocesi non dovessero assillarlo eccessivamente se, immediatamente dopo averne preso possesso, scelto come vicario generale il canonico Rolando della Valle, poté tornare ad attendere a più profane cure, ricco dei 3.000 scudi annui, a cui ammontava la rendita del vescovato casalese.
La posizione del rappresentante pontificio al campo imperiale in un momento in cui la politica di Clemente VII volgeva decisamente a favore della Francia, era delicata e non priva di rischi: «Qui semo visti non dico dalli Signori, ma da tutto il Campo, come il diavolo la croce», scriveva lo Spatafora (Virgili, Otto giorni…, p. 184). Il Castellari continuava intanto, a seconda degli ondeggiamenti politici del pontefice, a fare la spola tra gli Imperiali e i Francesi, recando sempre nuove proposte di tregua, tutte destinate a finire nel nulla. Nell’imminenza della battaglia di Pavia, insieme con gli altri ambasciatori e con il Morone, fu allontanato dal campo e mandato a Sant’Angelo. Avuta la notizia della vittoria imperiale, si precipitò però a Pavia, da dove invia al Giberti un ampio resoconto della battaglia, utilizzato dal Guicciardini nel XV libro della Storia d’Italia.
Dopo Pavia, il Castellari fu nominato nunzio pontificio presso il duca di Milano: si trovò così direttamente coinvolto nelle complesse vicende politiche di quel difficile periodo, dall’arresto del Morone all’occupazione di Milano, all’assedio del castello di porta Giovia.
Le testimonianze sulla congiura del Morone, dalla confessione di questo, così particolareggiata nel descrivere le responsabilità dello Sforza e del pontefice, all’autobiografia di Domenico Sauli, non fanno menzione del Castellari, per cui sembra doversi escludere una sua attiva partecipazione alla congiura. Ma il nunzio pontificio, a Milano, in un periodo cruciale per i disegni di Clemente VII, quale quello tra il 1525 e il 1526, non poteva essere all’oscuro di quanto si stava tramando intorno a lui. Sembra piuttosto plausibile supporre che Clemente VII abbia voluto tener fuori il Castellari dalla congiura, sia per la sua posizione ufficiale, sia per utilizzarlo eventualmente nella guida delle sollevazioni popolari che avrebbero dovuto accompagnarla. Nonostante l’esito catastrofico della congiura, infatti, questo ruolo fu svolto dal Castellari durante i moti milanesi dell’aprile 1526, moti probabilmente spontanei, provocati dall’estrema tensione popolare per il peso del mantenimento dell’esercito imperiale, ma avrebbero potuto facilmente divenire l’occasione per cacciare gli Imperiali da Milano e da tutto il ducato, come sperava lo stesso Guicciardini, fiducioso nell’«ardore meraviglioso» del popolo milanese. Dopo il fallimento di questi moti, gli Imperiali accusarono, infatti, il Castellari di esserne stato l’istigatore, giungendo ad istituire un’inchiesta giudiziaria e ad accusarlo davanti al pontefice. Mentre Clemente VII protestava la sua ignoranza sulla questione, il Castellari lasciava bruscamente Milano, richiamato dal pontefice secondo la versione ufficiale, con una vera e propria fuga, «insalutato ospite», secondo gli Imperiali. Secondo altre versioni, il suo ruolo nelle sollevazioni dell’aprile sarebbe stato molto più modesto, ed egli si sarebbe in realtà adoperato, insieme con i patrizi milanesi e in particolare con Francesco Visconti, per placare la tensione popolare e per intercedere presso gli Imperiali in favore del popolo milanese. Anche una simile versione sottolinea comunque l’ambiguità della sua condotta, che agli occhi degli Imperiali doveva sembrare una vera e propria connivenza con i rivoltosi, se poco dopo gli poteva essere addirittura offerta la guida di un’insurrezione popolare: «certissimo è – scriveva Giacomo del Cappo, ambasciatore di Mantova a Milano – che il popolo minuto vorrebbe darli dentro et hanno fatto intendere al noncio apostolico che lo vogliono per loro capo. Esso ne ha riso, et gli ha risposto non essere sua professione né pensamento, ma certo è che da canto del popolo men de uno solforino accenderebbe il foco, et le cose de l’Imperatore in Italia si risolverebbono per via di poco momento» (Sanuto, XLI, col. 296).
Giunto a Roma nel maggio 1526, il Vescovo di Casale riferiva al pontefice delle disperate condizioni del castello di Milano assediato dagli Imperiali, e ripartiva subito dopo per raggiungere l’esercito della lega, come commissario pontificio al campo di Giovanni dalle Bande Nere. Tra il luglio e il settembre 1526 si recò a Mantova presso Federico II Gonzaga, per persuaderlo a negare il passaggio nelle sue terre alle truppe imperiali e a mantenersi favorevole alla lega, senza con questo modificare di molto l’ambigua politica del marchese. Nel dicembre dello stesso anno (1526), dopo la morte di Giovanni dalle Bande Nere, passò con l’esercito a Piacenza, e a questo periodo e alle difficili vicende della guerra si riferisce un suo nutrito carteggio con il Guicciardini, allora luogotenente generale del pontefice presso gli eserciti della lega, carteggio che abbraccia il periodo tra il novembre 1526 e il gennaio dell’anno successivo.
Nel 1528 il Castellari è commissario pontificio a Parma e a Piacenza: in quelle circostanze, d’accordo con il Gambara, allora vicelegato a Bologna, organizzò un complotto insieme con Girolamo Pio da Carpi, comandante il presidio del duca Alfonso d’Este a Reggio, per conquistare Ferrara al pontefice, uccidendo lo stesso duca. Il complotto fu sventato, probabilmente in seguito alle rivelazioni di Roberto Boschetti, e cosò la testa a Girolamo Pio. Nel novembre del 1529, dopo essere stato governatore di Piacenza, lo troviamo in Lombardia a raccogliere truppe per l’impresa di Firenze, ormai pienamente riconciliato con gli Imperiali. Nel 1530, dopo essere stato commissario pontificio all’assedio di Firenze, al comando di seimila lanzichenecchi, il Castellari fu ulteriormente ricompensato della sua fedeltà alla casa de’ Medici con la carica di vicelegato a Bologna, dove subentrò al Gambara, inviato nunzio in Germania.
Dal 1530 inizia come una svolta nella vita del Castellari. Alla diplomazia degli anni precedenti sostituisce un’attività rivolta soprattutto al governo delle città dello Stato della Chiesa, attività che si dimostrerà essenzialmente repressiva, in cui, del resto, si distinse per abilità e durezza, segno certamente del mutato panorama della politica pontificia dopo il congresso di Bologna, cui il predominio spagnolo lasciava ormai spazio solo più per compiere il processo di accentramento politico-amministrativo dello Stato della Chiesa.
A Bologna, dove il Castellari ritornò come governatore nel 1543, lasciò fama di governo crudele e sanguinario, specie verso la nobiltà locale, in accordo con le direttive politiche pontificie di eliminazione delle autonomie cittadine e delle prerogative nobiliari: infatti, durante l’anno del suo governatorato, molte delle famiglie nobili bolognesi, tra cui i Pepoli, furono costrette all’esilio.
L’anno seguente, 1531, al ritorno del Gambara, il Castellari fece ritorno a Roma, per poi essere inviato nelle Marche come vicelegato, dove restò dal 1531 al 1534 e dove si distinse per la severità e la ferocia del suo governo ( Delli impiccamenti di Mons. della Barba senza altri processi è il titolo di un documento coevo che si riferisce appunto a questa sua risolutezza). A lui, coadiuvato dalle truppe di Luigi Gonzaga, Clemente VII affidava l’impresa di assicurare allo Stato pontificio la Repubblica di Ancona, impresa in cui il Castellari si legò strettamente al destino e alle ambizioni di un altro assai malfamato avventuriero del Cinquecento, Benedetto Accolti, cardinale di Ravenna. Tra le ambizioni dell’Accolti, in realtà, e il disegno di Clemente VII sussistevano notevoli divergenze: il pontefice mirava ad assegnare ad Ippolito de’ Medici il governo della città, l’Accolti a farsene un dominio personale, tanto più che la diocesi di Ancona era tradizionalmente feudo della sua famiglia.
Dopo alterne vicende nel 1532, l’Accolti ottenne dietro pagamento di 20.000 ducati annui la carica di legato pontificio nelle Marche e dette incarico al Castellari di iniziare l’occupazione della città appoggiato dalle truppe del Gonzaga. Presa Ancona di sorpresa e senza spargimento di sangue, fece il suo ingresso il 20 settembre 1532, sfuggendo a stento all’ira dei cittadini. Il Castellari governò la città con l’usata durezza, ponendo fine all’autonomia cittadina. Le fonti anconetane, pur così ostili a lui, devono tuttavia riconoscere che si dovette al suo intervento personale la salvezza della città dal saccheggio da parte delle truppe del Gonzaga.
Vista la concomitanza di peste e di carenza di grani, il Castellari, il 30 novembre 1531, Governatore della Marca, emana i “Decreti”. Poiché i contadini ed i piccoli proprietari erano spesso costretti dalla miseria a vendere a vilissimo prezzo i prodotti e particolarmente grano, vino ed olio, molto tempo prima della raccolta, il Governatore dichiara nulli ed “usurari” simili contratti, colpisce con gravissime pene gli acquirenti, ordina che in ogni comune della Marca i prezzi siano ufficialmente stabiliti a marzo per l’olio, in agosto per il grano ed in ottobre per il vino (cioè sempre a raccolta avvenuta) e definisce particolari concessioni per i contadini in caso di sterilità, sino alla nullità delle vendite pur legittimamente effettuate, in modo da assicurare tutte le raccolte ai contadini per il loro sostentamento e per la semina successiva.
Proprio ad Ancona si svolse l’episodio che rischiò di travolgere la carriera del Castellari insieme con quella dell’Accolti: l’invio al patibolo, durante la dura repressione antinobiliare seguita alla presa della città, di cinque patrizi anconetani, in seguito ad una precostituita accusa di cospirazione. L’accusatore, che il Castellari aveva personalmente istruito, denunziò in seguito i suoi mandanti al pontefice,che si affrettò a togliere all’Accoliti la legazione delle M;arche per darla al nipote Ippolito de’ Medici. Nel luglio del 1534, quando ormai la disgrazia dell’Accolti era imminente, il Castellari era ritornato a Roma, dove aveva ottenuto la ricompensa per l’azione svolta ad Ancona, con l’alta carica di governatore di Roma, conferitagli da Clemente VII negli ultimi mesi della sua vita e confermatagli, anche se per breve tempo, dal Collegio cardinalizio dopo la morte del pontefice. La fine del pontificato mediceo impresse all’affare una svolta imprevista e, nell’aprile del 1535, Paolo III imprigionò l’Accolti, convocando contemporaneamente il Castellari a Roma per discolparsi. Il Castellari, che si era rifugiato a Casale, si guardò bene dall’ubbidire, e inviò da Casale una dichiarazione medica comprovante la sua impossibilità di muoversi dalla diocesi a causa della riapertura di una vecchia ferita. «El Barba ha avuto ventura a trovarsi discosto – scriveva il 22 aprile 1535 il Guicciardini a Bartolomeo Lanfredini – ché non harebbe potuto se non patire grossamente. Se la imputatione d’havere fatto morire quelli cinque a torto fussi vera, sarebbe stata bructissima cosa; ma molti credono che la non si verificherà, benché non c’è credibile che ‘l Papa si fussi mosso senza fondamento molto certo. Che questa cosa pesi a’ Cardinali lo credo; ma sarà piaciuta a chi è cardinalabile, che è proprio la via a fare loro riuscire el disegno» (Carteggi, XVI, p.184).
Il 21 novembre 1535 la dicesi di Casale veniva dichiarata vacante; nel 1536 il Castellari era condannato in contumacia alla privazione di ogni feudo e beneficio di cui fosse investito. Mentre l’Accolti, condannato a morte, veniva graziato in seguito all’intervento di Carlo v, il Castellari veniva reintegrato nel suo grado nel settembre del 1538, anche se gli fu imposta una confessione scritta sui fatti di Ancona e una multa di 2.000 scudi d’oro, del resto subito condonatagli. Anche il nuovo pontefice, infatti, si trovava nella necessità di servirsi della sua particolare esperienza politica e militare.
L’occasione non si fece attendere: papa Paolo III, Farnese, in gravi difficoltà finanziarie, aveva posto una tassa generale sul sale, estesa anche a Perugina, che in base ad antichi trattati avrebbe dovuto esserne esentata. Tra il malcontento generale, Perugina si ribellò per prima, con la cosiddetta guerra del sale. Paolo III nel 1540 colpiva la città d’interdetto e vi mandava un esercito guidato dal figlio Pier Luigi Farnese e dal Castellari. Dopo la sottomissione della città e la partenza del Farnese, il Castellari, il 17 giugno 1540, fu nominato governatore di Perugina, carica estesa in seguito a tutta l’Umbria, e vi restava con un forte presidio a compiervi una dura repressione, coadiuvato da una nuova magistratura di sua creazione, i Conservatori dell’ecclesiastica obbedienza.
Ricomincia così l’ascesa del Castellari, che ottiene subito la ricompensa della sua nomina, il 17 agosto 1540, a vescovo di Pozzuoli, in aggiunta alla diocesi di Casale. Alla diocesi di Pozzuoli però, «preso da scrupoli per il cumulo dei benefici ecclesiastici», rinunziò il 1° marzo 1542. Dopo il nuovo governatorato di Bologna, nel 1543, ebbe l’incarico di conservare la città di Piacenza in nome della Chiesa al nuovo duca Pier Luigi Farnese, nel 1545. Dopo questa data non restano notizie sicure del Castellari, tranne una lettera da Roma dell’aprile 1546. Morì a Viterbo il 27 giugno 1546.
Ebbe rapporti con le personalità più in vista del tempo: con Guicciardini, con il Giovio e particolarmente con Pietro Aretino. Questi fu legato al Castellari da rapporti piuttosto stretti, che risalivano al periodo trascorso insieme al campo di Giovanni dalle Bande Nere e, durante la repressione di Perugina, città a cui l’Aretino era legato da ricordi giovanili, non mancò d’intervenire più volte ed efficacemente presso il Castellari a favore di alcuni cittadini sospetti.
Editore occasionale, il Castellari nel 153 ad Ancona si servì della tipografia di Giovanni Guidone e Ariotto Guerralda.
Fonti e Bibliografia:
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