Duglioli Elena

di M. Romanello in Dizionario biografico degli italiani, Cfr. www.treccani.it

 [a Casale presso Anne d’Alençon, sua figlia spirituale, nell’inverno del 1517 – 1518]

Nacque nel 1472 a Bologna da Pantasilea Boccaferri e da Silverio, notaio appartenente ad antica pur se non ricchissima famiglia, da lei sposato in seconde nozze.
Le vite manoscritte della D. e quelle più tarde a stampa sono concordi nel segnalare fin dalla più tenera infanzia i segni premonitori di una vita di pietà eccezionalmente intensa. Da piccolissima “non vagiva, o piangeva”. scorrere del tempo “non ebbero mai a sgridarla… sentivasi portata alle opere di misericordia… amava di star ritirata e solitaria”; insomma, “mente in essa appariva di puerile”: così recita, prefigurando un seguito in progressivo crescendo, quella che è forse la più dettagliata fonte biografica della futura beata (Melloni, III, p. 311).
Più in là negli anni la D. conduce vita privata nella sua casa, preferendo frequentare fin da allora la chiesa e la comunità di S. Giovanni in Monte: vicinanza rilevante non solo topograficamente ma, come si vedrà, pregna di conseguenze ecarica di significati nel prosieguo della sua vicenda biografica. Di tanto in tanto dà segno di soffrire di “alienazione da sensi” (ibid.), attribuita dal biografo a “frequenza ed intension dell’orare Crescendo, “l’amor d’Elena alla virtù trova seri ostacoli e ruvide reazioni proprio in famiglia. La madre, in particolare, la vorrebbe “più sciolta e conversevole”, soprattutto viene guardata con sospetto la sua crescente dedizione alla vita contemplativa e alla pratica, allora avversata, della comunione frequente. Dopo alcune esitazioni che la sollecitavano – date le premesse, quasi inevitabilmente – ad abbracciare la vita monacale nel convento del Corpus Domini di Bologna, la grande svolta: il matrimonio, indubbiamente tornante decisivo nella vita della D. e determinante nella successiva caratterizzazione del suo culto. Appena quindicenne, infatti, va sposa al maturo ser Benedetto Dall’Olio, uno dei notai di fiducia dei canonici regolari di S. Giovanni in Monte, non certo ricco ma appartenente a una famiglia ricordata nel 1500 come una delle cento più rilevanti in città.
La vita di pietà della D. continua e, se possibile, si intensifica dopo le nozze: nella sua casa ottiene il permesso di adibire una stanza a cappella e di potervi fare celebrare la messa; non ha figli, ma alleva come propri una nipote, Pantasilea Monteceneri, un’altra fanciulla che prenderà i voti e un nipote del famoso fra’ Silvestro Prierio, domenicano, celebre autore di trattati spirituali e demonologici e, per un certo tempo, padre spirituale e confessore della stessa Duglioli. La quale trascorre la sua esistenza tutto sommato anonima finché, nel 1506, comincia ad essere divulgato il fatto miracoloso che costituirà l’attributo principale della sua supposta santità: sposata da diciotto anni, conserva la sua verginità nel matrimonio. Da questo momento la vita privata della donna e la costruzione della sua leggenda agiografica procedono di pari passo intrecciate strettamente tra loro. È proprio su questo attributo di santità tutto sommato inconsueto che si fonderà l’accostamento proposto e sempre più ricercato della D. con s. Cecilia, l’altra più celebre e accreditata sposa-vergine, e addirittura, più tardi, con la Madonna. Ma nello sviluppo del culto per questa “santa viva”, accanto alla voluta similitudine a modelli consolidati e indiscussi, si debbono collocare, ugualmente qualificanti, elementi di provenienza locale legati più specificamente all’ambiente bolognese.
Come è stato recentemente dimostrato, la “devozione verso donne pie che attraggono l’attenzione di intere città e che divengono oggetto di culto mentre sono ancora viventi” (Zarri, p. 86) non costituisce fenomeno eccezionale e ad un’analisi più accurata presenta alcune caratteristiche comuni e tipiche: il carattere cittadino, alle volte cortigiano della venerazione rivolta a queste carismatiche, la funzione, da esse giocata, di consolidamento del potere del principe o della parte politica che rappresentavano. La localizzazione cronologica di tali culti durante gli anni delle guerre d’Italia e quella geografica che li situa nell’area delle corti padane e in alcune città del dominio pontificio sottolineano ulteriormente la valenza anche politica di tali manifestazioni di per sé appartenenti più tipicamente alla sfera del sacro collettivo o individuale. Il caso della D. si colloca in un contesto di questo tipo: gli anni che vanno dal 1506 al 1520, il periodo cioè in cui si assiste al progressivo crescendo del culto per la maritata-vergine, è uno dei più travagliati e drammatici delle guerre d’Italia e per Bologna, in particolare, segna il trapasso violento dalla signoria dei Bentivoglio alla restaurata pienezza della sovranità pontificia. La D. è la carismatica che dovrebbe sostenere la legazione, il polo di attrazione cultuale alternativo rispetto alla parte bentivogliesca. In quest’ottica è da considerare la sottintesa, e tuttavia esistente, contrapposizione tra la D. e la legazione papale, da un lato, e, dall’altro, la più famosa e indiscussa santa cittadina, Caterina Vigri, che in vita era stata potente abbadessa del monastero del Corpus Domini, il convento, cosi vicino alle donne di casa Bentivoglio, che custodiva il suo corpo incorrotto. La nuova devozione fa capo, invece, alla chiesa di S. Giovanni in Monte che apparteneva alla Congregazione dei canonici regolari di Fregionaia. All’epoca in questione era divenuta sempre più chiaramente un polo di aggregazione della borghesia mercantile e delle professioni cui, sia pure non ai livelli più alti, appartenevano anche i Dall’Olio. Probabilmente la famiglia faceva parte di quella componente sociale e politica che vide di buon grado la caduta della signoria dei Bentivoglio dopo avere cercato un allargamento del potere oligarchico voluto dai signori di Bologna. Del resto il loro tentativo di ascesa sociale i Dall’Olio l’avevano già fatto, riuscendo a dare in sposa nel 1515 la figlia adottiva della D., Pantasilea, al conte Andrea di Andalò Bentivoglio, discendente di un ramo della famiglia rimasto fedele al pontefice e strenuo devoto della beata.
Intorno agli stessi anni si andava consolidando sempre più il culto della D.: la schiera dei suoi fedeli aumentava in numero e, quello che più conta, in prestigio. Già il legato F. Alidosi si era raccomandato alle preghiere della D. (suscitando l’ironia del cronista G. Bolognini a proposito della credibilità concessa ad “una certa sanctarella”: Bibl. com. dell’Archig., ms. B 1108, ff. 202 s.: la Cronaca è anche attribuita a G. Gigli), le aveva fatto consistenti offerte in denaro per opere pie e, soprattutto, le aveva donato una reliquia di s. Cecilia, contribuendo così al processo di identificazione progressiva della D. con il suo più celebre referente. Anche il legato successivo, Giovanni de’ Medici, destinato dopo pochi anni a divenire papa, mostra una particolare devozione per la donna e considerazione verso la comunità di S. Giovanni in Monte. L’elenco di illustri prelati potrebbe arricchirsi con Giulio II, con il protonotario apostolico Pietro Stanga, quello spagnolo Alfonso di Lerma: tutti costoro offrono contributi sostanziosi alle opere di pietà e di culto promosse dalla donna bolognese rafforzando la sua fama di santità. Due, però, sono i personaggi che a diverso titolo emergono come determinanti nel creare un movimento di opinione favorevole al culto della D. e nel realizzare iniziative pratiche che le diano lustro: Pietro Ritta (Pietro da Lucca) e Antonio Pucci.
Il primo fu senz’altro più rilevante sul piano spirituale: lucchese, canonico lateranense, predicatore celebre e autore di alcuni tra i più interessanti testi devozionali dell’epoca, presente a lungo a Bologna soprattutto negli anni Venti del Cinquecento, diventa al tempo stesso padre e “figlio spirituale” della D. e con la sua, già celebre, presenza contribuisce in modo determinante ad aumentare il prestigio del convento di S. Giovanni in Monte. Quanto al Pucci, fu senz’altro alla sua abile azione e al suo talento di organizzatore di consensi e di mediatore finanziario che si debbono alcune delle realizzazioni che più contribuirono a costruire e divulgare la fama della Duglioli. Era costui un importante personaggio curiale, nominato nel 1518 vescovo di Pistoia, nipote del potente cardinale Lorenzo Pucci, cui nel 1529, al culmine di una importante e mai interrotta carriera, succedette alla carica di penitenziere maggiore e, due anni dopo, al titolo cardinalizio. Appartenente ad una ricca famiglia di parte medicea, fautore di un rinnovamento spirituale della Chiesa, che peraltro non lo distoglie dalla pratica nepotistica e dalle assidue cure temporali tipiche dell’epoca, è ancora chierico di Camera quando diventa “figlio spirituale” della D. e tale si considererà per tutto il suo lungo soggiorno a Bologna. Non è dato sapere se effettivamente il Pucci soggiornasse in casa Dall’Olio nel 1513, come vuole la leggenda; sta di fatto che i legami tra le due famiglie dovettero già allora essere stretti e più tardi ribaditi con un matrimonio tra nipoti. Sempre secondo la leggenda manoscritta della beata, sarà proprio nell’ambito del rapporto personale esistente tra la carismatica bolognese, Pietro da Lucca e il Pucci stesso che maturerà la decisione di commissionare la cappella di S. Cecilia nella chiesa di S. Giovanni in Monte, che si andava allora ristrutturando; e sarà ancora il vescovo di Pistoia che si farà carico della committenza e dell’intero pagamento della celebre pala di Raffaello in essa contenuta.
Nello stesso torno di anni (dal 1512 al 1515) il culto della D. si arricchisce di una nuova attribuzione. Viene fatta divulgare la “notizia che la donna non è, in realtà, figlia del notaio bolognese Silverio Duglioli ma del sultano turco Maometto II e di una donna della famiglia dei Paleologi, che è nata a Costantinopoli e che è stata traslata miracolosamente a Bologna per convertire gli infedeli e proseguire, così, l’opera del patrono s. Petronio. Il motivo della conversione del Turco proprio negli anni in cui il pericolo dell’Islam si fa sempre più pressante per l’Occidente e la discendenza della carismatica dal patrono di Bologna sono i due nuovi elementi che vengono aggiunti a connotare ulteriormente le attribuzioni della Duglioli. Accanto a questi c’è la dichiarata intenzione di porre le premesse per una promozione sociale della donna. facendola assurgere al livello delle famiglie principesche che la proteggevano. Non solo: dicendo che, di stirpe nobile, ella si era tuttavia unita in matrimonio ad un uomo di modesta estrazione sociale si dà maggiore concretezza alle ricercate similitudini biografiche con la Madonna su cui tanto indulgono gli agiografi della beata. Dopo l’accostamento Cecilia-D. si punta, dunque, su quello, ben più ambizioso, D.-Vergine Maria. Del resto, sposata nel 1515 la nipote Pantasilea, soprattutto morto nel giugno del 1516 il marito, la D. si trova – vedova – nella condizione ideale per disporre di sé.
Nel frattempo la sua fama di santità ha superato le mura cittadine e, anche preparata dalla predicazione di Pietro da Lucca, si rafforza tramite rapporti personali. In questa prospettiva si colloca il viaggio compiuto, tra il 1517 e il 1518, per visitare la protettrice e “figlia spirituale” marchesa di Monferrato, alla quale dedicherà l’unica operetta morale di cui si ha notizia dal Melloni (Brieve et signorilmodo del spiritual vivere e di facilmente pervenire alla cristiana perfectione, dettato dalla candidissima e beata vergine Helena, detta da Bologna, alla illustrissima madonna Anna marchesana di Monferrato sua spiritual diletta figlia, opuscolo stampato nel 1520 a Bologna, Milano e Venezia e riprodotto in Melloni, pp. 436-440).
Tornata a Bologna, non se ne allontanerà più se si eccettua un breve pellegrinaggio a Loreto nel 1520 poco prima di morire, il 23 settembre di quell’anno.
È solo in questo scorcio della sua vita terrena che appare l’unico “miracolo”, divulgato a vivacizzare un panorama di santità privo, nel complesso, di manifestazioni eclatanti: nel seno della D. compare il latte, testimonianza di verginità e prova di similitudine con Maria; secondo alcuni, addirittura, continuerà a sgorgare anche dopo la morte dal corpo della donna che si vorrebbe incorrotto.
Neppure l’esame necroscopico, eseguito una prima volta un mese e mezzo dopo il decesso, contribuisce a dissipare i dubbi: ai canonici e ai loro periti, accesi sostenitori della realtà dei presunti eventi miracolosi della vita della D., si oppongono i domenicani. Il loro cronista, Leandro Alberti, è categorico in proposito: “fu ritrovato detto corpo esser marzo e puzzolento” (Bologna, Bibl. univ., Mss. Ital., 97: Cronaca di Bologna, IV, f. 156r). Certamente questa contestata interpretazione si inserisce nel quadro della rivalità politico-religiosa tra i due Ordini, acuita dal distacco progressivo della D. dal convento di S. Domenico – che pure per un determinato periodo aveva frequentato assiduamente e dove aveva scelto un suo padre spirituale – per passare alla comunità dei canonici di S. Giovanni in Monte, filopapali e favorevoli alla caduta dei Bentivoglio.
Una netta opposizione al culto della D. dovette provenire anche dagli ambienti dei monasteri femminili, certo ostili nel riconoscere in una donna sposata uno stato di perfezione tradizionalmente riservato solo a persone professionalmente consacrate al celibato. È così che si spiega il brusco arresto nella diffusione del culto della D. tra il 1523 e il 1524, pochi anni, quindi, dopo la morte della donna. Né Leone X, il papa Medici legato personalmente alla carismatica bolognese e su cui contava Pietro da Lucca per bruciare le tappe della canonizzazione ufficiale, né Clemente VII successivamente, riusciranno a superare gli ostacoli: ma, in realtà, sono le condizioni generali a non richiedere più la funzione mediatrice di una tale figura femminile. Il potere dei legato papale era ormai del tutto consolidato e il ruolo di S. Giovanni in Monte come polo accentratore della borghesia cittadina stava venendo meno. Accanto a questi dati di carattere locale e forse determinante per spiegare la mancata canonizzazione della D. la riforma protestante dovette certo, in quegli stessi anni, consigliare la gerarchia ecclesiastica ad una maggiore prudenza nell’arricchire il già fitto martirologio cattolico. Neppure in seguito si giungerà ad un regolare processo che avrebbe portato all’ufficializzazione del suo culto: la D. continuerà ad avere un certo seguito devoto in Bologna ma tutto sommato resterà figura relegata in secondo piano e solo nel 1828 la congregazione dei Riti riconoscerà alla D. il titolo di beata sulla base dell’esistenza di un culto “ab immemorabili”.
Fonti e Bibl.: Bologna, Bibl. com. dell’Archiginnasio, ms. B 4314: Leggenda anonima di E. D.; Ibid., Mss. Gozzadini 292: “Del cuore di Helena Vergine dal Signore realmente tolto …”; Ibid., Arch. parrocchiale di S. Giovanni in Monte, B. Collina, Compendio della vita della beata E. D. dall’Olio (ms., XVIII sec.); C. C. Bentivoglio, Compendio della vita della b. E. dall’Olio, vergine, maritata e vedova, Bologna 1651; G. B. Melloni, Atti o memorie degli uomini illustri in santità nati o morti in Bologna, III, Bologna 1780, pp. 300-386, 436-40; G. D. Gordini, in Bibliotheca sanctorum, VI, Romae 1964, coll. 853-855; C. Colitta, E. D. Dall’Olio, in La beata E. D. ved. Dall’Olio, celebre donna del 1500, a cura della Chiesa parrocchiale di S. Giovanni in Monte, Bologna 1977; G. Zarri, L’altra Cecilia: E. D. Dall’Olio, in Indagini per un dipinto: la S. Cecilia di Raffaello, Bologna 1983, pp. 83-118; Id., Storia di una committenza, in L’estasi di s. Cecilia di Raffaello da Urbino nella Pinacoteca naz, di Bologna (catal.), Bologna 1983, pp. 21-28.