Della Fonte Bartolomeo

(Fonzio), di R. Zaccaria in Dizionario biografico degli italiani, Cfr. www.treccani.it

 Nacque a Firenze da Giovan Pietro di Matteo nel 1446, come si ricava dalla lettera di dedica ad Amerigo Corsini che il D. stesso premise alla raccolta del suo epistolario.
Della sua fanciullezza il D. parla in una lettera al maestro e compagno Pietro Cenninì (Epistolarum…, I, 19), dove ricorda i tempi in cui per sfuggire ai disagi dovuti alle gravi ristrettezze economiche della famiglia, egli trovava conforto nella poesia insieme all’amico Pietro Fannio. Il D. fu così indirizzato agli studi umanistici sotto la guida di Bernardo Nuti, studi che tuttavia dovette interrompere per la morte dei genitori, avvenuta intorno al 1461. IlD., che allora aveva appena quindici anni, si ritrovò così a capo di una famiglia numerosa composta da quattro fratelli minori (dei quali poi Mauro nella Congregazione benedettina di Camaldoli; Brigida, nata nel 1449, sposò nel 1479 Stefano Sartori, ed ebbe un figlio, Cornelio; Niccolò fu ordinato frate, col nome di Matteo, nel monastero degli Angeli, e infine Giovanni, che ebbe anche lui un figlio di nome Comelio). Le nuove responsabilità familiari assorbirono il D. per un lungo periodo durato circa sette anni, impedendogli in particolare di frequentare le lezioni allo Studio fiorentino.
Dopo questo arco di tempo il D., nel 1464. poté ascoltare le lezioni di Cristoforo Landino sull’Ars poetica di Orazio, di cui fece anche una breve esposizione tramandataci in un codice di “excerpta.” (Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 646), mentre per tutto il 1467 fu discepolo di Giovanni Argiropulo e da lui ascoltò il commento di un’opera filosofica di Aristotele, gli Analytica posteriora, conservandone gli appunti (nel ms. ora Riccardiano 152). Contemporaneamente, il D. seguì le lezioni di Bernardo Nuti, il cui metodo di insegnamento espose in una lettera a Bernardo Rucellai (Epistolarum…, III, 11): anche di questo corso sono pervenuti alcuni appunti relativi al commento del Nuti ai primi 304 versi del primo libro dell’Eneide (nello stesso Ricc. 152). Nel 1468 ascoltò il commento del Cennini sulle prime due Egloghe di Virgilio, e compose anche due volgarizzamenti dal latino, dedicati a Francesco Baroncini, l’Oratio Demosthenis ad Alexandrum e le Epistole di Falaride, opera quest’ultima che ebbe una grande diffusione manoscritta e a stampa.
Gli avvenimenti storici che, a partire dal 1467, turbarono la vita sociale e politica a Firenze, e che il D. commentò in una lettera a Puccio Pucci (Epistolarum…, I, 2), lo indussero nel 1469 a recarsi a Ferrara alla corte di Borso d’Este, adducendo fra le motivazioni anche la difficoltà di inserimento nell’ambiente culturale fiorentino. A Ferrara strinse rapporti con i maggiori letterati della corte estense come Battista Guarini, e, soprattutto, entrò in contatto don i più importanti centri culturali del Nord, come Bologna e Venezia, che gli fruttarono l’incontro con Lorenzo Canozio da Lendinara, il quale gli stampò a Firenze nel 1488, per la prima volta, le Epistole di Falaride. IlD. dedicò a Borso d’Este il volgarizzamento della Lettera di Aristea, insieme a due sonetti. Sempre a Ferrara strinse anche amicizia con l’ungherese Pietro Garasda.
Tornato a Firenze nel 1471, dopo la morte del duca., si ammalò di febbre quartana e dovette rimanere inattivo per circa un anno. In questo periodo il D. ebbe tuttavia modo di riflettere sulle ulteriori difficoltà di inserirsi nell’ambiente letterario fiorentino, data anche la scarsezza di mezzi economici a sua disposizione. Per questo motivo cercò di stringere i rapporti con il Garasda, che era molto vicino a Giovanni Vitez, vescovo di Strigonia, da cui il D. sperava di ottenere di essere chiamato alla corte di Mattia Corvino, re d’Ungheria. I successivi rivolgimenti politici, che videro il Vitez sconfitto e imprigionato dallo stesso sovrano e il Garasda esule a Venezia, fecero perdere al D. ogni speranza di recarsi in Ungheria.
Nel, 1472 compì un breve viaggio a Roma, di cui parlò in una lettera al Guarini, dell’aprile di quell’anno (Epistolarum…, 1, 16), manifestando un particolare interesse per i monumenti e le iscrizioni classiche. Più tardi raccolse in un manoscritto, col titolo Liber monumentorum Romanae urbiset aliorum locorum (Oxford, Bodleian Library, fondo Lat. misc. I, d. 85), un numero notevole di epigrafi da lui direttamente rintracciate e trascritte.
Al ritorno da Roma, il D. cercò di avvicinarsi di più alla corte dei Medici, dedicando a Giuliano la stesura definitiva del Donatus sive de poenitentia, che in un primo momento aveva composto per il Vitez. Inoltre, in questo periodo, strinse maggiormente i rapporti con Donato Acciaiuoli, uno fra i maggiori politici e letterati del tempo, suo amico sin dalla giovinezza, il quale lo esortò a riprendere gli studi superando tutte le delusioni e avversità incontrate fino a quel momento. Il D. accompagnò l’Acciaiuoli (che inserì come protagonista nel dialogo Donatus)in numerose legazioni all’estero, fra cui una presso il re di Francia nel 1473; ma durante il passaggio delle Alpi si ammalò, tanto che, pensando di essere prossimo alla morte, scrisse un’elegia a Niccolò Michelozzi, in cui porgeva anche l’ultimo saluto agli amici.
Ritornato finalmente a Firenze, il D. si dedicò alla stesura definitiva dell’Explanatio in Persium poetam, che dedicò a Lorenzo de’ Medici e che fu edita nel 1477 presso la stamperia di Ripoli. Nel frattempo continuava a frequentare lo Studio fiorentino dove insegnava Andronico Callisto, succeduto all’Argiropulo: da lui il D. ascoltò la lettura di Omero, delle Argonautiche diApollonio Rodio e di Demostene.
A questo periodo risale anche l’amicizia del D. con Francesco Sassetti, per conto del quale studiò, scrisse e fece copiare, aiutato dal fratello Niccolò, numerosi codici. L’editio princeps di Cornelio Celso, stampata nel 1478 a Firenze da Niccolò della Magna, rientra nell’attività che svolse per conto del Sassetti, contribuendo ad arricchire notevolmente la sua biblioteca. Nel 1478 il D. prestò la sua opera come correttore nella tipografia di San Iacopo a Ripoli, dove lavorò fino al 1480, come si può desumere dal Giornale di spese della stamperia (Firenze, Bibl. naz., ms. Magl. X.6.143).
Il 16 dic. 1479 firmò un contratto per la stampa di 200 copie della Logica di s. Agostino e il 19, ott. 1480 un altro per l’edizione di 100 copie delle Selve di Stazio: di quest’ultima opera il D. curò personalmente l’edizione insieme a quella del Lamento di Giuliano, scritto in occasione della morte del fratello di Lorenzo de’ Medici. Insieme a Niccolò della Magna e ai frati di Ripoli nel novembre del 1480, il D. costituì una società editoriale che poi lasciò nel 1482. Nel 1481, in seguito alla morte improvvisa di Francesco Filelfo, lettore di eloquenza presso lo Studio fiorentino, e grazie anche alla protezione di Bernardo Rucellai, subentrò in questa carica, che conservo fino al 1488, con la sola eccezione del 1483.
Questo periodo è caratterizzato da una intensa produzione letteraria del D., legata in particolare alla sua esperienza didattica: l’Oratio in laudem oratoriae facultatis fu composta nel 1481 come introduzione a un corso sugli Argonautica di Valerio Flacco e sulle orazioni di Cicerone; del 1482 è l’Oratio in historiae laudationem, con la quale il D. introdusse un corso sui Pharsalia di Lucano e sui Commentarii de bello civili di Cesare.
Proprio in questi anni scoppiò la polemica tra il D. e Angelo Poliziano, che in precedenza era stato suo compagno di studi ed amico, tanto che gli aveva dedicato nel 1473 un breve epigramma in latino ed una lunga elegia, a cui il D. aveva risposto con un’altra elegia piena di affetto e di stima. Il Poliziano, che godeva della protezione di Lorenzo de’ Medici, osteggiò l’insegnamento del D., sia perché non ne condivideva il metodo, sia per timore che la sua fama potesse nuocergli. Di questa contesa il D. fece cenno in una lettera al Rucellai (Epistolarum…, II, 5), ma la vera risposta è contenuta in un’altra lettera (ibid., I, 25), dove manifesta tutto il suo sdegno e il profondo rammarico per la vicenda. Tuttavia il Poliziano non desistette dai suoi attacchi.
Il D., per sfuggire alla campagna denigratoria, decise, nel novembre del 1483, di recarsi a Roma al seguito del cardinale Battista Zeno, che in quel periodo si trovava a passare per Firenze. Da Roma scrisse una lettera accorata al Rucellai (ibid., II,5) per scusarsi della partenza precipitosa e per giustificare il suo insegnamento allo Studio fiorentino. Con l’elezione al papato di Sisto IV, si era aperto a Roma un periodo favorevole anche per il D., che ottenne la cattedra di eloquenza all’università romana e fu ricevuto dal papa a corte, dove recitò anche un’orazione in occasione della ricorrenza delle Ceneri. Ben presto, tuttavia, l’ambiente infido della Curia, la morte dell’amico e collega allo Studio, Andrea Brenzio, e soprattutto le difficoltà dovute alla politica dispendiosa di Sisto IV indussero il D. a riprendere i contatti con gli amici e protettori fiorentini, e in particolare con Lorenzo de’ Medici, al quale scrisse una lettera (Epistolarum…, II, 4) in cui lo pregava velatamente di richiamarlo allo Studio fiorentino (e al quale dedicò pure alcune elegie, conservate a Firenze, Bibl. naz., ms. Magl. II, 62; VII, 1039). Così, grazie all’aiuto di Pier Filippo Pandolfini e del Rucellai, fu richiamato a Firenze, dove il 17 dic. 1484 ottenne l’incarico di insegnamento di poetica e retorica, con il salario di 60 fiorini. In occasione del ritorno allo Studio compose l’Oratio in bonas artes per introdurre il corso sulle Puniche di Silio Italico; per l’anno accademico 1485-86 compose l’Oratio in laudem Poetices per la lettura delle Odi di Orazio; per l’anno 1486-87 introdusse il corso sulle Satire di Orazio con l’Oratio de sapientia. Nell’anno 1487-88, per commentare le Satire di Giovenale, compose l’Oratio in Satyrae et studiorum humanitatis laudationem, con la quale rispose pubblicamente alla invettive del Poliziano, rinunciando però alla polemica, ma usando un tono equilibrato e limitandosi a pochi attacchi diretti. Inoltre compose il Commentarium in Valerium Flaccum, il De locis Iunianis e il De locis Livianis e, infine, gli Annales suorum temporum, opera storica che arriva sino al 1483. In questo periodo il D. riprese anche con fervore gli studi greci iniziati in età giovanile, e nel 1485 completò la traduzione di Focilide, che dedicò al figlio di Pier Filippo Pandolfini, Francesco, di cui era precettore, mentre al 1490 circa risale quella dell’OratioDemosthenis contra Aeschinem de mala legatione, terminatadal D. durante un soggiorno nella villa di Pelago.
Nel 1487 il D. fu invitato a recarsi a Ragusa ad insegnare lettere; pur manifestando apprezzamento per l’invito, rifiutò per non lasciare la famiglia e gli amici.
La sua scelta fu anche condizionata dal fatto che in questo periodo era entrato in contatto con Taddeo Ugoletti, umanista al servizio di Mattia Corvino e da lui inviato in Italia e altri paesi con il compito di ricercare codici e manoscritti. per la biblioteca reale. Durante la sosta a Firenze nel 1488 l’Ugoletti entrò in relazione anche con altri umanisti, come il Sassetti, l’Aurispa, il Poliziano, ma si avvalse soprattutto dell’opera e dell’esperienza del D., che, d’altro canto, poté in questo modo riprendere i contatti con la corte di Buda, dove il Corvino cercava di realizzare un grosso centro letterario. Di questi scambi restano testimonianza un ampio carteggio tra il D. e il re, un piccolo trattato intitolato Tadeus vel de locis Persianis a lui dedicato (in Opera exquisitissima…, pp. 6-28) e una raccolta di poesie latine, il Saxettus, indirizzato al principe ereditario (poi inserito nei Carmina).
Intorno al 1489 il D. ottenne finalmente l’invito a recarsi a Buda, dove si fermò circa sei mesi, dedicandosi a sistemare la biblioteca reale, lavorando alla compilazione dei cataloghi, riordinando i codici che distribuì cronologicamente per materia. Alla corte del Corvino pronunciò con successo anche una famosa orazione, che, appena tornato in Italia, inviò a Roberto Salviati raccomandandogli di darla a Pico della Mirandola perché la giudicasse (Epistolarum…, II, 14). Anche dopo il breve soggiorno in Ungheria, il D. rimase sempre in contatto con il Corvino, per conto del quale ricercò e fece copiare numerosi manoscritti.
Dopo l’esperienza alla corte di Buda, il D. cominciò a trascorrere sempre più tempo in campagna, nella villa di Pelago, dedicandosi soprattutto agli studi religiosi. Ma qui compose anche il Ragionamento sopra alchuni luoghi de’ Triumphi del Petrarca o Pelago, perché ivi ambientato, e il De poetice ad Laurentium Medicem (Parigi, Bibl. nat., ms. Lat. 7879). Dal 1491 al 1492 visse a Ghiacceto nella pieve del nipote Cornelio, e nel 1492 fu investito egli stesso della pieve di Montemurlo, nella diocesi di Pistoia, grazie all’intercessione di Pier Filippo Pandolfini, che ne aveva ricevuto il patronato da Sisto IV.
Questa nuova fase della vita del D., caratterizzata da un impegno in campo ecclesiale oltre che da riflessioni puramente religiose, non lo distolse dai suoi interessi letterari e dall’insegnamento attivo allo Studio, dove fu ancora chiamato a leggere poetica e retorica nell’anno 1495-96, e poi retorica e Sacra Scrittura dal 1497 al 1501 e di nuovo poetica e oratoria dal 1502 al 1503: restano solo i titoli delle orazioni inaugurali ai corsi, quali l’Oratio in sacras litteras, l’Oratio in obtrectatores studiorum humanitatis, l’Oratio in religiosos vituperatores humanitatis, l’Oratio de vera philosophia.
Il D. morì a Montemurlo nell’ottobre del 15 13, lasciando erede della cospicua biblioteca (aveva anche una ricca collezione di monete) Francesco Pandolfini. Per suo espresso desiderio venne sepolto nella pieve di Montemurlo.
Nel panorama della cultura umanistica, il D. occupa un posto non indifferente, sia per la molteplicità dei suoi impegni culturali sia per la qualità dei suoi studi e soprattutto delle sue opere filologiche, non ancora sufficientemente indagate. Egli è comunque uno dei più importanti umanisti fiorentini della seconda metà del Quattrocento, per certi aspetti paragonabile solo al Poliziano. La sua vasta attività letteraria può essere distinta e raggruppata in alcuni settori principali: scritti e compendi filologici, opere originali in prosa e poesia, traduzioni, epistolografia e, infine, trascrizioni di manoscritti.
Si è già accennato ad alcuni “excerpta” autografi, risalenti al periodo giovanile del D., in cui egli prendeva appunti seguendo le lezioni universitarie. Anche successivamente il D. fu solito raccogliere una serie di estratti e citazioni, in quaderni per suo uso personale, sia da autori classici (Aristotele, Cicerone, Cesare, Livio, Svetonio, Apuleio, Plinio) e dai commentatori (Acrone, Asconio Pediano e Servio) sia da autori religiosi (padri della Chiesa, Lattanzio, Giovanni Crisostomo, Alberto Magno), sia da autori contemporanei (Valla, Tortelli, Pier Candido Decembrio, Filelfo, Calderini, Donato Acciaiuoli). Questi quaderni, conservati presso la Biblioteca Riccardiana di Firenze (mss. 151, 152, 153, 154, 646, 673, 907), consentono di conoscere in profondità la cultura letteraria del D. in ogni settore, e, quindi, i suoi specifici interessi soprattutto lessicali, grammaticali, filologici che poi avrebbe manifestato nelle sue opere originali.
Nuova e importante testimonianza sugli studi lessicali ed etimologici del D. è il Dictionarium ex variis auctoribus collectum, conservato autografo nel Ricc. 837. Si tratta di un dizionario che contiene un vastissimo numero di notizie linguistiche, storiche, geografiche, che il D. elaborò nel corso delle sue copiose letture ed annotazioni minuziose, e di cui l’opera rappresenta, in un certo senso, la sintesi finale. Non se ne conosce la data di compilazione, certamente posteriore a quella del commento a Persio, che egli stesso cita, e che forse risale al primo periodo di insegnamento allo Studio fiorentino. Il dizionario appare come un prontuario ad uso scolastico, in cui la materia non è ordinata alfabeticamente; vi sono anche vere e proprie trascrizioni letterarie dove accanto ai vocaboli il D. pone le definizioni generali sul loro significato, tratte da grammatici e autori classici, citando spesso anche accanto al vocabolo latino il corrispondente in volgare.
Come si è già detto, il D. pubblicò a Firenze nel 1477 il commento a Persio, col titolo Explanatio in Persium poetam, con cui intese affermare la validità di Persio come poeta satirico. Tuttavia il D. non volle fare dell’opera di Persio un vero e proprio commento, bensì un'”explanatio”, dare cioè una interpretazione chiara e semplice del testo, spogliata da qualsiasi erudizione, sviluppandone le parti oscure e cercando soprattutto di interpretare il pensiero del poeta. Il difetto principale di questa “explanatio” è costituito tuttavia dalla mancanza di qualsiasi riferimento storico alla società romana e ai personaggi vissuti al tempo di Persio, indispensabili per inquadrare il genere satirico. Più tardi il D. apportò all’opera diverse aggiunte e correzioni contenute nell’opuscolo De locis Persianis, che compose proprio con lo scopo di agevolare la lettura di Persio sulla base di cognizioni testuali più vaste e precise, attribuendo all’età giovanile l’abbondanza delle notizie contenute nel primo commento.
Il successivo commento a Giovenale, composto dal D. intorno al 1489-90 e conservato nel Ricc. 1172, col titolo Annotationem in Iuvenalem, costituisce una tappa fondamentale nella sua attività letteraria: l’opera, dedicata a Lorenzo Strozzi, rappresenta infatti una presa di posizione precisa contro la scuola di Lorenzo Valla e dei suoi seguaci, Francesco Filelfo e Giorgio Merula, ma soprattutto il Poliziano. Il D., più che dedicarsi alla critica del testo, tende a mettere in rilievo le diversità di interpretazione delle frasi e dei riferimenti storici in opposizione a quelli contenuti nei commenti del Valla e del Merula su Giovenale, arrivando ad accusarli di aver spesso volutamente travisato il senso del testo. Si serve degli stessi esempi dei suoi avversari per confutarli o spiegarli diversamente, sostituendoli con altri appositamente ricercati negli autori classici. Notevole fu anche l’apporto filologico del D. al testo di Livio, autore particolarmente studiato nella Firenze del Bruni e del Bracciolini. In particolare emendò i primi sei libri della seconda guerra punica nelle Observationes in primum librum Livii de secundo bello Punico (Ricc. 1172). Il metodo qui applicato non fu solo quello congetturale, ma anche quello comparativo, in quanto utilizzò fonti molteplici e diverse. Curò pure il testo delle Argonautiche di Valerio Flacco, che fu poi la base per l’edizione giuntina del 1501, che è conservato autografo nel manoscritto Laurenziano XXIX, 36della Bibl. Medicea-Laurenziana di Firenze, e che appartenne al Sassetti. Il D. redasse accuratamente l’opera di Flacco, riportando anche le lezioni degli altri manoscritti da lui collazionati, in particolare il Vat. lat. 3277, e basandosi sia sul lavoro critico effettuato quando era ancora studente sia sulla lettura delle Argonautiche, fattanel 1481nello Studio fiorentino.
Nel 1478pubblicò a Firenze anche l’editio princeps del De medicina di Cornelio Celso, con un’epistola dedicatoria al Sassetti, in cui afferma di aver condotto la sua edizione oltre che sui codici fiorentini, anche su esemplari “gallici” fornitigli dall’amico. Ciò gli procurò un’accusa di falso da Pier Matteo Uberti, che sosteneva che il D. si sarebbe servito del codice “Bolognese” (l’attuale Laurenziano LXXIII, 1), inviato al Poliziano da Stefano Milanese perché lo collazionasse con l’edizione del Della Fonte. In realtà il D. si servì veramente di “exemplaria e Gallia conquisita”, cioè provenienti dall’Italia settentrionale, dove il Sassetti ebbe occasione di fermarsi durante i suoi frequenti viaggi in Francia.
Il D. effettuò anche importanti versioni sia dal greco in latino, sia dal latino in volgare. Al primo gruppo appartengono, oltre a quelle già citate di Focilide e dell’orazione di Demostene contro Eschine – condotte in pieno rispetto del testo originario, reso in latino letteralmente, con grande chiarezza -, le traduzioni dei versi iniziali del primo libro dell’Odissea e dei primi capitoli delle Argonautiche di Apollonio Rodio (conservati nei Ricc. 62e 153). Non è certo se sia del D. la versione completa delle Argonautiche diApollonio Rodio (trasmessa dal Ricc. 539). Al secondo e più numeroso gruppo, quello delle versioni in volgare, per lo più collocabili ai primi anni dell’attività letteraria del D., appartengono: il volgarizzamento della leggenda dell’Aristeasde LXXII interpretibus, effettuato verso il 1467-1468, poco prima della sua partenza per Ferrara; la versione del De Calumnia di Luciano, sulla base della traduzione latina di Guarino Veronese (a cui aggiunse nel proemio due sonetti dedicati ad Ercole d’Este); le Epistole di Falaride condotte sulla traduzione latina di Francesco Griffolini; l’orazione di Demostene AdAlexandrum e da Apuleio le pagine relative al “Dio di Socrate”.
Accanto alla vasta produzione di carattere essenzialmente filologico, il D. scrisse varie opere originali, in prosa e in poesia che, se per numero inferiori rispetto alle altre fin qui esaminate, non mancano ugualmente di interesse.
In prosa il D. compose l’Oratio in historiae laudationem, frutto di una lezione da lui tenuta allo Studio fiorentino nel 1482, dove, fra l’altro, espone la sua concezione della storia. All’inizio dell’opera discute sui maggiori storici greci e romani, illustrando in particolare il carattere esemplare della Storia di Livio, ritenuto superiore a tutti gli altri per eloquenza, vastità dell’argomento, stile e chiarezza espositiva. Il D. aderisce alla concezione umanistica della storia, intesa come guida morale dell’uomo, il cui insegnamento deve avvenire sotto forma di “exempla”, cioè testimonianze di virtù e di vizio, poiché compito dello storico è quello di esortare l’uomo alla virtù distogliendolo dalle cattive azioni. In tale contesto rientrano le diverse operette storico-narrative che il D. scrisse per esaltare le virtù pubbliche e private di vari personaggi, quali la Vita M. Tulli, la Vita Pauli Ghiacceti, la Vita Sancti Iohannis Ghualberti, la Vita Iohanni Vaivodae e la Vita Petri Philipphi Pandolphini:conservate manoscritte in testimoni diversi. Compilò anche un’opera storica a carattere annalistico, gli Annales suorum temporum, relativa agli anni 1448-1483, stampata per la prima volta da G. Lami a Livorno nel 1756. Sitratta però di uno scritto estremamente limitato, comprensivo di rapide annotazioni e ricordanze su alcuni dei principali avvenimenti e personaggi relativi prevalentemente alla storia fiorentina.
La preparazione e la cultura del D. nel settore degli studi religiosi furono ampie e assai significative, soprattutto negli ultimi anni della sua vita. Ma fino dagli “excerpta” si può vedere come il D. si applicasse allo studio degli autori cristiani anche per trarne insegnamenti morali e teologici. Rimangono numerose tracce dei suoi studi, ad esempio su Agostino, Giovanni Crisostomo e Tommaso d’Aquino, ma la sua attenzione si estende pure ai teologi del suo tempo, come Niccolò de Lyre e Giovanni Gerson. Dell’attività letteraria del D. a sfondo religioso è testimone il dialogo Donatus sive de poenitentia, composto in età giovanile, nel 1469-70 circa (pubblicato poco dopo senza alcuna indicazione tipografica) e dedicato a Giuliano de’ Medici, dove il D. immagina di aver preso parte, in un venerdì santo, ad un dialogo insieme a Donato Acciaiuoli e di averlo trascritto il giorno seguente.
L’autore, il quale racconta di recarsi a casa di Donato, per “apprendere da lui a fare penitenza”, tratta prima del peccato, causa di eterna dannazione, e poi della natura della penitenza, e di come questa debba essere predicata e perché si debba ritenere la più necessaria di tutte le virtù. Lo stile del D. è concitato e pieno di espressioni retoriche, poiché, come scrisse a Francesco Gaddi (Epistolarum…, I, 5), ciò si adattava alla solennità dell’argomento. Compose anche due sonetti in volgare, in cui cantò la pietà religiosa, e orazioni legate alla sua attività di insegnamento di retorica e Sacra Scrittura presso lo Studio fiorentino. Il D. commentò pubblicamente i Trionfi del Petrarca nel Ragionamento sopra alcuniluoghi de’ Triumfidel Petrarca (ms. Ashburnh. 768della Biblioteca Medicea-Laurenziana di Firenze), dove egli manifestò chiaramente il suo interesse per la lingua volgare, impegnandosi anche in una discussione, nuova per quel tempo, di carattere metodologico e filologico. Scrisse in volgare anche un trattato De’ principii e de’ tempi in otto libri e un Poema delle idee, che non poté finire né rivedere, in cui è presente anche una componente neoplatonica; entrambe queste opere sono andate perdute.
Limitata appare la produzione poetica del Della Fonte. In latino scrisse poco più di una trentina di Carmina, il cui codice principale proviene dalla Bibl. Corvina, ed è l’attuale ms. 43 Aug. della Herzog-August Bibliothek di Wolfenbüttel. Nei Carmina confluiscono le 28 poesie riunite nella ricordata raccolta Saxettus e poche altre rimastene fuori. Tali composizioni sono per lo più indirizzate ad amici, quali Niccolò Michelozzi, Bartolomeo Scala, Angelo Poliziano, Pier Filippo Pandolfini, Lorenzo de’ Medici, Francesco Gaddi e altri. Con squisita eleganza – che fa del D. uno dei migliori poeti latini del suo tempo – sono descritti motivi di vita quotidiana, amorosi, oppure vengono cantati temi esaltanti l’amicizia. Non meno significativa appare la produzione poetica in volgare raccolta in quattro Libri sonectorum et cantionum poema, il cui testimone principale è il ms. Campori App. 2827 della Biblioteca Estense di Modena.
Notevole valore, soprattutto per le cospicue notizie biografiche che vi sono contenute, hanno le lettere dei D., raccolte dall’autore – nell’attuale ms. Palat. V. Capponi 77 (cui è premesso un elenco completo delle sue opere) – nel 1496 in tre libri, dedicati ad Amerigo Corsini, personaggio molto in vista alla corte medicea. Le lettere aggiunte dopo questa data sono o di mano del D. o del copista Francesco Baroncini. Nell’epistola dedicatoria il D. spiega la volontà di raccogliere e sistemare il proprio carteggio con il presentimento di una morte vicina. L’epistolario del D., che si riferisce agli anni 1467-1513, ricalca il gusto dell’epoca, e quindi non è privo di quella veste retorica e di quel manierismo proprio di simili opere, anche se l’autore avverte di scrivere con sincerità e per l’intima cerchia degli amici. Per questo, nonostante il rigoroso rispetto per le norme stilistiche classiche, lo stile non manca di eleganza e di vivacità e dimostra una reale partecipazione del D. alle vicende da lui vissute o raccontate con rara sensibilità e delicatezza. Accanto alle lettere di argomento strettamente familiare, se ne trovano altre che si presentano come veri e propri trattati di argomenti diversi: filosofico, filologico, teologico, politico.
Un non trascurabile settore dell’attività umanistica del D. è costituito dalla sua opera di copista di codici destinati in particolare alle biblioteche di Francesco Sassetti e di Mattia Corvino. Questi manoscritti, copiati dal D. – in parte anche con l’aiuto del fratello Niccolò – secondo il modello grafico appreso alla scuola di Niccolò Niccoli (e graficamente assai diverso dal “ductus” rapido e irregolare degli “excerpta”), e molto spesso corredati da stupende miniature., si riferiscono principalmente a testi di autori classici: ad esempio le Argonautiche diValerio Flacco e di Apollonio Rodio (rispettivamente nel Laur. XXXIX., 36 e nel Ricc. 539), le Epistole dello Pseudo-Falaride e dello Pseudo-Bruto (Laur. XLVII, 25), i versi iniziali del primo libro dell’Odissea (Ricc. 62).
Occorre rilevare che il D. copiò anche numerosi codici per la sua personale biblioteca, che organizzò con cura meticolosa e con ricchezza di volumi (almeno 140) relativi ad autori classici, latini e greci, e contemporanei, in molti dei quali è rimasta la sua nota di possesso.
Dall’elenco delle opere del D., premesso al già ricordato ms. Palat. V. Capponi 77, risultano non a noi pervenuti altri suoi scritti minori.
Oltre alle opere direttamente stampate dal D., si hanno le seguenti edizioni: Phalarisepistolae, Florentiae 1488 (e successive ed.); Operaexquisitissima Bartholomei FontiiFlorentini, a cura di G. Remus, Francofurti 1621; Annales suorum temporum, in F. Villani, Liberde civitatisFlorentiae famosis civibus, a cura di G. C. Galletti, Firenze 1847, pp. 153-59; Epistolarum libri III, a cura di L. Juhász, Budapest 1931; Carmina, a cura di J. Fógel-L. Juhász, Leipzig 1932 (altri testi sono stati pubblicati negli studi di C. Marchesi, L. Frati, G. Bottiglioni, C. Trinkaus).
Fonti e Bibl.: Notizie diverse sulla vita del D. si trovano in: Arch. di Stato di Firenze, Ufficiali dello Studio 5, ce. 107r, 112v, 124v; 6, c. 109v; Notarile Antecosimiano, C395, cc. 127rv, 138r-139v, 178r, 186v; D 34, cc. 113r, 122v, 141v, 143r; Carte strozziane, s. 1, 136, c. 154; 137, cc. 88r-89v; Arch. di Stato di Pisa, Arch. dell’Università, G. 2, II, C. 129v; III, c. 91r; Firenze, Bibl. Riccardiana, ms. 3503, tomo 5 (spogli L. Mehus); Firenze, Bibl. naz., Magl. II, IV, 171, c. 99 (Diario di Piero Parenti). Cfr. inoltre: G. Negri, Istoria degli scrittori fiorentini, Ferrara 1722, pp. 81 s.; A. M. Bandini, Specimen liter. Florent. saeculi XV, Florentiae 1747-51, I, pp. 135, 146 s., 177; II, pp. 13, 47, 53, 65, 80, 94; Id., Catal. codicum Latin. Bibliothecae Mediceae Laurent., I-III, V, Florentiae 1775-1778, ad Indices; G. Lami, Catalogus codicum manuscriptorum qui in Bibliotheca Riccardiana Florentiae adservantur, Liburni 1756, ad Ind.;L. Mehus, Ambrosii Traversarii generalis Camaldulensium aliorumque ad ipsum et ad alios de eodem Ambrosio Palatinae epistolae, Florentiae 1759 (rist. anast., Bologna 1968), ad Ind.;N. Fineschi, Notizie stor. sopra la stamperia di Ripoli, Firenze 1781, p. 59; G. Tiraboschi, Storia letter.
ital., VI, 1, pp. 159, 200; 2, pp. 1096 s.;A. Fabronio, Hist. Acad. Pisanae, I, Pisis 1791, p. 373;G. Lami, Invent. e stima della libreria Riccardi, Firenze 1810, pp. 8, 12, 15-18, 20 ss., 26, 28;F. Inghirami, Storia della Toscana, XIII, Fiesole 1843, pp. 70s.;E. Piccolomini, Delle condizioni e delle vicende della libreria medicea privata dal 1494 al 1508, in Arch. stor. ital., s. 3, XIX (1874), pp. 124, 268 s.; A. Reumont, La Biblioteca corvina, ibid., s. 4, IV (1879), pp. 60, 64; S. Morpurgo, Imanoscritti d. R. Biblioteca Riccardiana di Firenze, Roma 1893, pp. 122, 219s., 287;R. Sabbadini, La scuola e gli studi di G. Guarini veronese, Catania 1896, ad Ind.; C.Marchesi, B. D. (Bartholomaeus Fontius). Contributo alla storia d. studi classici in Firenze nella seconda metà del Quattrocento, Catania 1900;R. Sabbadini, Suicodici della Medicina di Cornelio Celso, in Studi ital. di filol. classica, VIII (1900), pp. 8, 18-21(poi in Storia e critica di testi latini, Padova 1971, pp. 221, 231-34); A. Della Torre, Storia d. Accad. platonica…, Firenze 1902, ad Ind.;E. Nesi, Diario della Stamperia di Ripoli, Firenze 1903, pp. 20 ss.;G. Bertoni, La Biblioteca Estense e la cultura ferrarese ai tempi del duca Ercole I (14711505), Torino 1903, p. 23;L. Frati, Rime ined. di B. Fonzio, in Giorn. stor. d. letter. ital., XLVII (1906), pp. 287-97;R. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci ne’ secoli XIV e XV, Firenze 1906, I, pp. 150s., 165, 203; II, p. 257;G. Bottiglioni, La lirica latina in Firenze nella seconda metà del sec. XV, Pisa 1913, pp. 120, 145-52;F. Ferri, Per una supposta traduzione di Omero del Fonzio, in Athenaeum, IV (1916), pp. 312-20;G. Fraknói-G. Fógel-P. Gulyás-E. Hoffmann, La Biblioteca di Mattia Corvino re d’Ungheria, Budapest 1927, pp. 70-83; A. Vaccari, La lettera d’Aristea sui settanta interpreti nella letteratura italiana, in La Civiltà cattolica, LXXXI (1930), pp. 308-26; V. Rossi, IlQuattrocento, Milano 1933, pp. 370, 387; P. O. Kristeller, Supplementum Ficinianum, II, Florentie 1937, pp. 187s., 239 s.; F. Saxl, The classical inscription in Renaissance art and politics. Bartholomaeus Fontius, “Liber monumentorum Romanae urbis et aliorum locorum“, in Journ. of the Warburg and Courtauld Institutes, IV(1940-41), pp. 19-46;G. Cammelli, G. Argiropulo, Firenze 1941, pp. 96 s., 103;Id., Idotti bizantini e le origini dell’Umanesimo. Andronico Callisto, in La Rinascita, V(1942), pp. 104, 185, 190-94;L. v. Pastor, Storia dei papi, II, Roma 1942, p. 629; V. Vian, La satira, I, Milano 1945, pp. 410, 412, 515;R. Ridoffi, Vita di G. Savonarola, I, Roma 1952, p. 192; A. Perosa, Mostra del Poliziano, Firenze 1955, ad Ind.; P. O. Kristeller, Studies in Renaissance Thought and Letters, Roma 1956, ad Ind.;R. Ridolfi, La stampa in Firenze nel sec. XV, Firenze 1958, pp. 21, 32-45; T. De Marinis, La legatura artistica in Italia nei secc. XV e XVI, I, Firenze 1960, p. 111 n. 1119; C. Trinkaus, A humanist’s image of Humanism: the inaugural Orations of B. D., in Studies in the Renaissance, VII (1960), pp. 90-147;E. Garin, La cultura filosofica del Rinascimento ital., Firenze 1961, pp. 188, 190, 218, 264, 343, 356, 482;I. Maïer, Les manuscrits d’Ange Politien, Genève 1965, pp. 82, 94, 98, 131,223, 244, 345, 399s., 433;E. Casamassima, Note e osservazioni su alcuni copisti dei codici corviniani, in Atti d. Convegno italoungherese di studi rinascimentali, in Ungheria d’oggi, V(1965), 1, pp. 82s.; I. Maïer, Ange Politien, Genève 1966, pp. 22 s., 67, 72-82, 105ss., 133, 136;E. Garin, La letteratura d. umanisti, in Storia d. letter. ital., III, Milano 1966, pp. 330, 352; C. Trinkaus, The Unknown Quattrocento Poetics of B. D., in Studies in the Renaissance, XIII (1966), pp. 40-122;R. Cardini, La critica del Landino, dalla XandraalleDisputationes Camaldulenses“, in Rinascimento, s. 2, VII (1967), pp. 187, 194, 207, 216 ss.(successiv. in La critica del Landino, Firenze 1973);J. Dunston, Studies in D. Calderini, in Italia medievale e umanistica, XI (1968), pp. 71, 81ss., 121ss.; C. Vasoli, Studi sulla cultura del Rinascimento, Manduria 1968, pp. 197, 225s.; A. F. Verde, Nota d’archivio. Inventario e divisione d. beni di Pierfilippo Pandolfini, in Rinascimento, s. 2, IX (1969), pp. 308s.; B. Maracchi Biagiarelli, Editori di incunaboli fiorentini, in Contributi alla storia del libro. Miscell. in on. di L. Donati, Firenze 1969, pp. 212-16;F. Gilbert, N. Machiavelli e la vita culturale del suo tempo, Bologna 1969, pp. 31-47;Id., Machiavelli e Guicciardini, Torino 1970, pp. 175, 178s., 182, 185 s., 192; C. Trinkaus, In Our Image and Likeness, London 1970, pp. 626-33; T. De Marinis-A. 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